martedì 28 agosto 2012

Due begli esempi




In questi giorni ho fatto molte volte il nome di Giuseppe Guercio.
Non ne ho potuto fare a meno: Giuseppe è un ingegnere edile carlentinese che abita e lavora a Reggio Emilia. Quando su Face book ha letto della nostra mobilitazione per recuperare la chiesetta abbandonata di San Giuseppe Giusto ha immediatamente aderito con entusiasmo contagioso. Non ha mai pensato “io sono carlentinese, vivo in Emilia, cosa mi interressa?”. Né mai, da tecnico consapevole delle difficoltà burocratiche, economiche e pratiche, ha detto una parola che potesse scoraggiare o indurre al pessimismo. È tornato a Carlentini per un paio di settimane di ferie e anziché riposarsi ha trascorso le sue ferie lavorando con un impegno e una generosità eccezionali per il nostro progetto: foto, studi, ricerche, relazioni.
Ci ha fornito indicazioni, informazioni, suggerimenti e strumenti di eccezionale utilità per il prosieguo della nostra azione. Insomma, un esempio ed uno stimolo, più ancora di un aiuto.
Poi un giorno ci trovammo a parlare della nostra festa dl libro. Nel giro di quarantotto ore si presentò a casa mia con centosessanta libri da donare ai nostri quindicenni. Lui non me lo ha chiesto, ma a me sembra doveroso e bellissimo invitare quest’anno, assieme ai lentinesi anche tutti i quindicenni di Carlentini. Il sindaco, gli amministratori e i ragazzi di Carlentini devono sapere qualcosa del loro splendido concittadino. Egli, per conto proprio, in silenzio, in punta di piedi, senza clamore, ne ha regalati circa ottocento alla biblioteca della sua città.
E qui mi viene in mente suo padre. Il padre di Giuseppe fu sindaco di Carlentini dal 1962 al 1975. Quando cominciò Giuseppe non era nato, quando finì aveva tre anni. Perché mi viene in mente? Perché la biblioteca di Carlentini vide la luce nel 1966 grazie allo straordinario impegno del padre di Giuseppe. Egli, il padre, è il mitico Cicciu Vecciu, Francesco Guercio. La istituzione della Biblioteca Comunale non fu il frutto di un parto indolore. Vi furono parecchie opposizioni. Molte assomigliavano a quelle che sentiamo dire adesso, quasi cinquant’anni dopo: “con tanto che c’è da fare…” “La cultura non si mangia” e così via filosofando.
Ma Ciccio non li ascoltò, andò avanti. Egli sapeva quale cibo fondamentale fosse la cultura per gli uomini e per l’intera società, sapeva che nessuna comunità può avere futuro senza cultura, senza informazione, senza conoscenza. I suoi oppositori non erano solo anziani, braccianti e contadini, come si potrebbe pensare, ma anche intellettuali, professionisti e giovani. E il sindaco Guercio non era un uomo acculturato, come si potrebbe credere: Era un contadino-allevatore in prima persona. Non aveva lauree, ma solo la quinta elementare. Ma SAPEVA il valore della cultura. Sapeva che i libri devono essere facilmente accessibili a tutti, perché l’ignoranza e la non conoscenza conducono alla subalternità degli individui e al declino delle società.
Aveva capito tutto senza avere avuto l’opportunità di leggere libri.
Quando Giuseppe nacque la sua casa era pronta ad accoglierlo con decine di libri nello scaffale, pronti per quando il bambino sarebbe stato in grado di leggerli.
Il sindaco Guercio entrò nella storia di Carlentini per altre mille ragioni, ma il fatto che abbia voluto istituire la Biblioteca comunale in quei tempi e con quelle difficoltà, per me lo rende immortale.
Io mando un abbraccio e un ringraziamento a Giuseppe, ma a suo padre, al grande Ciccio Guercio, ne mando cento e cento.

venerdì 24 agosto 2012

Cicogne, tartarughine e capperi



Vent’anni fa proprio nel nostro territorio, sui terreni che un giorno ospitavano le acque del Biviere nidificò una coppia di cicogne.
Erano le prime cicogne, dopo cinque secoli di assenza, che poggiarono piede in Sicilia. Oggi vene sono 140 esemplari, tutti discendenti da quella prima coppia.
In Sicilia ci sono molte zone umide, dall’Oasi del Simeto all’Area Protetta del Ciane, per restare alle più vicine, ma loro scelsero Lentini. Non badarono che fosse bella o brutta.
La sera del 21 agosto è accaduto un altro evento bellissimo e misterioso: sulla spiaggia di Agnone, tra i lentinesi al mare, sono nate una cinquantina di tartarughine caretta-caretta. Sbucavano fuori con la loro andatura buffa da sotto una barca capovolta. (potete vederle su http://www.lanotizia.tv/).
Sapete tutti quanta spiaggia c’è non frequentata da bagnanti, eppure la loro mamma scelse questo posto per deporre le uova. Si fidò, vorrei dire, di noi lentinesi.
Neanche mamma tartaruga badò al fatto che Agnone fosse bella o brutta. Qualcosa la spinse là.
A me piace immaginare che siano dei segnali, dei messaggi rivolti a noi lentinesi.
Dal libro di Nino Risuglia presentato proprio la sera della nascita delle tartarughine emerge un messaggio: la tua città è tua madre. Non è importante che sia bella o brutta, povera o ricca, calma o nervosa. È tua madre, e tu la ami, la rispetti, la fai rispettare e non dimenticherai niente di lei.
Il bellissimo movimento che è nato per il recupero della chiesetta di San Giuseppe Giusto sembra confermare quanto ho appena detto, non è nato perché San Giuseppe Giusto sia bello o perché può essere sfruttabile ai fini turistici e dunque economici, ma perché questa chiesetta è memoria, identità, anima. È un monumento seminascosto all’incuria. Alla incomprensione e alla superficialità dei nostri concittadini. Vogliamo trasformarlo in monumento alla generosità, alla partecipazione, alla ricerca delle radici, della cultura e dell’arte sacra nel nostro territorio.
L’abbiamo abbracciato, appunto, come si fa con la madre, senza secondi fini e senza badare a questioni estetiche. Ma essa ci sta subito donando emozioni straordinarie. Anche legate alla bellezza.
Il vano dedicato al culto è di metri cinque per sette. La superficie dei muri e del soffitto sarà quindi di poco più di 150 metri quadrati. Ebbene, in questo piccolo spazio sono racchiusi affreschi senza nessun valore, ma di straordinaria bellezza.
È una regalo inaspettato e graditissimo. Un premio e uno stimolo, ma lavoreremmo al suo recupero anche se non fosse così.
Perché è così che ci si comporta con la madre.
Onorandola e difendendola da tutti gli insulti a qualsiasi costo e a prescindere da tutto.
E ci sta dando un altro dono forse,  ancora più grande ed inaspettato.
Intanto le foto: tante, scattate fotografi provetti e improvvisati con cui abbiamo già messo in piedi una mostra on line (http://www.facebook.com/media/set/?set=oa.461980100501916&type=1) e ne vogliamo realizzare una itinerante nel periodo natalizio.
E poi la grande  offerta del proprio impegno da parte di decine di giovani e adulti.
Vorrei citarli tutti, uno per uno, ma sono troppi. Credo che nessuno si offenderà  se ne cito solo due: Corinne Valenti e Giuseppe Guercio. La prima, una dolcissima ragazza lentinese, tra le altre cose ne ha fatta una straordinaria: ha interpretato e donato ai contemporanei una scritta ormai quasi del tutto illeggibile.
Il secondo è un ingegnere carlentinese che vive e lavora a Reggio Emilia e sta dedicando con generosità estrema tutti i pochi giorni di vacanza in Sicilia al nostro progetto.
Tra l’altro ha scritto una relazione storico-strutturale della chiesetta, che, con razionalità competenza, ne mette in luce aspetti interessantissimi e tracce in grado di giungere presto ad altre scoperte.
Infine, un pensiero particolare lo dedico al professo Paolo Giansiracusa, il quale si è dichiarato subito pronto a mettere tutta la sua competenza ed il suo prestigio a disposizione del nostro progetto, mentre l’Accademia di Belle Arti “Rosario Gagliardi” da lui diretta si è dichiarata disponibile ad occuparsi del restauro degli affreschi.
Anche qua c’è un chiarissimo segnale di incoraggiamento da parte della natura, l’indicazione della strada da seguire da parte della vita: Su un muro scrostato di San Giuseppe Giusto si è abbarbicato un cappero e ha fatto casa. Le foglioline minute dal verde intenso mostrano che la vita non si ferma davanti al banale ostacolo della mancanza d’acqua e di riparo e rende vivo un muro che gli uomini stolti dichiarano morto.
Gli amici che stanno lavorando alacremente per recuperare San Giuseppe Giusto sono cicogne, tartarughine, capperi. Sono ragazze, ragazzi, donne e uomini vivi che portano vita tra le braccia della loro Lentini.


giovedì 23 agosto 2012

Un cappero


Su un muro scrostato
di San Giuseppe Giusto
si è abbarbicato un cappero
e ha fatto casa.
Le foglioline minute
dal verde intenso
mostrano che la vita non si ferma
davanti al banale ostacolo
della mancanza
d’acqua e di riparo
e rende vivo un muro
che gli uomini
dichiarano morto

mercoledì 15 agosto 2012

Nino Risuglia, scrittore dell’anima


  
Il 21 di agosto, alle 19. all’Arena Santa Croce sarà presentato il libro “Lentini. Un amore nella memoria”. L’autore è il mio caro amico e splendido lentinese Nino Risuglia. L’editore è la Aped di Angelo Parisi.
A presentarlo sarà la preside Maria Arisco ed anch’io avrò il privilegi di dire qualche parola in proposito. Saranno presenti il Sindaco Alfio Mangiameli, l’assessore alla cultura Nuccia Tronco, la professoressa Antonella Battaglia, presidente della Commissione letteraria dell’Aped ed alcuni attori dell’associazione Anteas di Siracusa. A condurre la serata sarà il giornalista Salvatore Di Salvo. Tra gli ospiti, anche il tenore Tino Incontro.
“Lentini. Un amore nella memoria” è uno di quei libri che dovevano essere scritti e che ognuno di noi dovrebbe leggere e conservare a casa. Ma non nella libreria, dove essi vengono riposti tra molti altri bensì sul comodino, accanto al computer, sul tavolino del salotto, cioè sempre a portata di mano perché siano sempre consultabili e sempre possano essere mostrati agli amici.
Di cosa parla questo libro? Il titolo dice molto ma, ovviamente, non tutto. In un fitto dialogo con i nipotini l’autore racconta la Lentini degli anni in cui anche lui bambino, ragazzino, giovanotto. Vengono descritti i giochi, i quartieri, i personaggi, i mestieri, i rapporti tra amici, tra vicini, tra familiari, di certi aspetti, direi magici, della natura. Ai ragazzini mostra un mondo sconosciuto, quello in cui sono cresciuti e si sono formati i nonni e, indirettamente, i loro genitori. Agli adulti propone una rilettura pacata e distaccata dei valori che governavano la nostra società: il rispetto reciproco tra le persone il rispetto profondo per la natura.
C’è tanta gente che ogni giorno parla delle bellezze di Lentini, le bellezze fisiche. Talvolta, per affetto, esagerando, altre volte minimizzando, spesso per farne un uso politico ed elettorale.
Raramente si trova qualcuno come Nino Risuglia, che guarda all’anima della comunità, cioè alla parlata, alle relazioni tra i suoi membri, alle dolcezze dei sentimenti.
Nino ne ha capito l’importanza ed ha capito quanto sia utile, doveroso conservarne la memoria, mostrarle, tramandarle
Uno delle osservazioni che più mi hanno colpito è la totale differenza tra i modi di giocare di allora (siamo negli anni ’50) ed adesso. Oggi i bambini hanno i “loro” giocattoli, giocattoli che “usano”, spesso da soli, isolati dal resto del mondo. Allora, in mancanza di giocattoli, si giocava “assieme” agli altri bambini, on gli altri si faceva “squadra”, ci si coordinava, ci si confrontava, ci  si conosceva e rispettava.
Parlare di questo è per l’autore anche l’occasione per sciorinare decine di giochi con i loro nomi, le loro regole, i loro trucchi, dalla Ria a quaranta alla Ria a cento, da A nomu di Diu alla Vacca scinni e ‘ncravacca alla Fussetta, a Pappantoni di vilanza. E poi il lungo elenco di personaggi molto popolari (commovente il ritratto che Nino fa di Padre Cantella), i mestieri come l’ugghiularu, u vanniaturi,  u conzapiatti, l’umbrillaru.
Sul  suo primo libro, “Glossario. Parole e detti lentinesi”, scrissi, nel gennaio dello scorso anno: Quanto amore ci vuole per scrivere una ad una circa cinquemila parole e un migliaio di modi di dire? Lo immagino seduto, non a scrivere ma a prendere ogni parola da uno di quei canestrini colorati in cui un tempo si spedivano le arance in regalo e lucidarla delicatamente col fiato e con un panno e deporla amorevolmente nello scrigno che poi è diventato libro. 
Per quest’altro dovrei ripetere le stesse cose, e aggiungo che questo suo straordinario e incondizionato amore per la sua e nostra città è molto simile a quello per la madre: bella o brutta che sia, povera o ricca, vivace o tranquilla, è la nostra città, la madre. E come la madre va amata e rispettata senza condizioni. Il solo pensarlo, il solo dirlo rappresentano un primo contributo per farla amare e per migliorarla.

mercoledì 8 agosto 2012

Salvo Fusco, grande artista.



Oggi vi parlerò di un mio amico. Si chiama Salvo Fusco. Ricordatevi il nome perché prima che io finisca di parlare sarà diventato anche vostro amico.
Salvo è lentinese, è fotografo e vive a Falconara Marittima, in provincia di Ancona, insieme alla moglie Tiziana e alle due figliole, Beatrice e Denise.
Perché ve ne parlo? Perché sono stregato dalle sue foto.
Salvo è, insieme, un delicato artista e un formidabile uomo d’avventura.
Va a raccogliere immagini sui bordi della bocca di un cratere vulcanico fumante e tra le nevi perenni della Siberia, nella giungla keniota o dentro una tempesta. E le sue foto esprimono la forza, i colori, i contrati della natura selvaggia, violenta, incontrastabile.
In altre foto riesce ad esaltare la voglia dell’uomo di gareggiare con la natura stessa, il suo epico sforzo e i suoi strabilianti risultati.
Ce n’è una in cui sono colti alcuni momenti di una esibizione di frecce tricolori: La libertà del volo, il ruggito dei motori, la geometrica precisione delle traiettorie ad altissima velocità sembrano un grido di libertà e di vittoria dell’uomo sulle leggi della gravità. Salvo è riuscito a raccogliere e a rendere a noi tutto questo con un solo scatto. Forse un millesimo di secondo. Ma il millesimo di secondo giusto, quello in cui gli aerei sono racchiusi in uno spazio fotografabile ed esprimono la potenza, la velocità, la precisione ai massimi livelli.
E ci sono altre tre foto di tutt’altro tenore che mi hanno colpito particolarmente e che dimostrano la straordinaria versatilità e la profondità della poetica di Salvo.
Una racconta un tramonto. I tramonti sono spesso fotografati e altrettanto spesso dipinti. Sono sempre suggestivi. Le nuvole arrossate dal sole declinante, i campi, in primo piano tendenti al verde scuro. Questa foto è bella come tante altre foto, come tanti dipinti. È la drammaticità del passaggio dal giorno alla notte, alla luce al buio che rende il tutto  molto suggestivo.
Ma qua c’è qualcosa di diverso. C’è l’artista Salvo Fusco che racconta un’altra storia. E ci racconta di sei cipressi di cui potremmo non accorgerci vista la straordinaria potenza di quella luce al tramonto. Ebbene, Salvo riesce a cogliere e ad offrirci uno spettacolo poetico e commovente: il brivido che attraversa e fa vibrare quei cipressi che dopo una giornata di luce sanno di dovere affrontare una notte al buio, al freddo, in solitudine, senza canti d’uccelli.
Poi ce n’è una che sembra avere come soggetto l’Etna in eruzione sullo sfondo di un paesino che fa da quinta.
In realtà, a guardarla bene, ci si accorge che il paesino è muto, deserto, attonito, spaventato. E l’eruzione ne è la spiegazione.
La stessa poesia si coglie in una foto completamente diversa.
In questa il soggetto è la reliquia di Sant’Alfio portata in spalla da alcuni devoti. Lo sfondo è eccezionale: l’ingresso della Grotta dei Santi. Attorno i sacerdoti e i portatori. Quasi a fare da sfondo i semplici fedeli. E mentre tutto è bellissimo, qua, in questa corona di fedeli, donne e uomini, anziani e bambini, si manifesta la grandezza dell’artista. Quei volti esprimono tutta la commozione, l’affetto per il Santo, la contemplazione, lo stupore di essere là in quel momento tipica di lentinesi per Sant’Alfio. E ogni volto sembra esprimere un suono dolce e malinconico. E da questa corona di fedeli sembra elevarsi un coro, un inno ai loro martiri.
Ecco, Salvo riesce a fotografare anche i canti muti, le emozioni più profonde, lo sgomento, lo stupore.






giovedì 2 agosto 2012

RECUPERIAMO SAN GIUSEPPE IL GIUSTO





L’avvocato Aldo Failla, sempre lui, sempre grande, ha lanciato un grido di dolore per lo stato di abbandono in cui si trova la chiesetta rupestre di San Giuseppe il Giusto, qualche centinaio di metri sopra il cimitero di Lentini (contrada Ciricò) ma sul territorio comunale di Carlentini.
Qualcuno ha raccolto con serenità questo grido, qualcun altro non ha perso l‘occasione per utilizzarlo per le proprie strumentalizzazioni politiche (peraltro fuori luogo, visto che il sito è in stato di abbandono da circa settant’anni), degradando un sogno a misera arma contundente per colpire l’oggetto della sua acredine.
A Lentini dobbiamo sopportare con pazienza questi soggetti, ma  in compenso abbiamo altri personaggi, in primis proprio Aldo, grazie ai quali qualcosa si combina. Aldo, per esempio, è quello che ha messo su un’associazione per comprare la scrivania di Giovanni Falcone, altrimenti perduta, senza perdere tempo a criticare chi non l’aveva fatto prima di lui; poi c’è Enzo Caruso con i ragazzi dell’associazione P.A.C.E., che dapprima hanno avviato un magnifico lavoro di volontariato in difesa dei randagi, poi hanno installato la statua di Gaetano e infine hanno “adottato” piazza Taormina, facendola diventare un gioiellino; poi ci sono questi splendidi ragazzi che di notte vanno a sistemare la aiuole di Lentini, fino ad arrivare ai giovanissimi Giorgio Franco, Danilo Daquino, ecc.  E gli esempi non finiscono qua.
Quello che voglio dire è questo: troppo spesso i brontoloni senza costrutto, i “mi-lamento-di-tutto quindi esisto”, quelli che “Lentini fa schifo”, i rancorosi, gli inaciditi, troppo spesso questi soggetti, dicevo, si tirano dietro altri senza personalità e senza autonomia di pensiero.
Io sono tra quelli che hanno scelto da tempo ben altri maestri, quelli che FANNO: ieri Carlo Lo Presti, Carlo Cicero, l’avvocato Sgalambro, il professore Ciancio e C., oggi Maria Arisco, Pippo Cardello, Elio Cardillo, Enzo Caruso, Aldo Failla, i giovani “friarielli” di Lentini, Enzo Laezza.
I pessimisti dicono che Lentini è quella dei primi, io dico che è quella dei generosi, dei sorridenti, dei sereni, dei senza mugugni e dei costruttori di serenità e bellezza..
E allora dico: facciamo come questi ultimi: SAN GIUSEPPI U GIUSTU RECUPERIAMOLO NOI.
Anche perché non c’è nessun altro in grado di farlo: non il comune di Lentini, perché non cade nel suo territorio, né quello di Carlentini, perché con i suoi abitanti non c’entra niente.
SOLO NOI POSSIAMO E SOLO NOI DOBBIAMO lavorare per il suo recupero.
Almeno per tre ragioni che sintetizzo così: i Templari, il sommacco, S. Eligio.
I Templari perché furono essi ad innalzarla, nel XIII secolo (Pisano Baudo . Storia di Lentini), dopo avere ottenuta la concessione di pescare nel fiume Lentini (oggi San Leonardo).
Il sommacco perché è una pianta che dal 1600 al 1800 portò molta ricchezza in Sicilia (dalla corteccia e dalle foglie si estraeva il tannino, necessario per la tintoria e per la concia delle pelli), di cui si fece larghissima esportazione, specialmente in Inghilterra. Attorno alla chiesetta ce n’è una rigogliosa piantagione prepotentemente sopravvissuta ai tentativi di sostituirla con un agrumeto.
S. Eligio è il nome della stupenda vallata che divide il colle S. Mauro da quello di Ciricò, e dalla chiesetta può essere ammirata in tutta la sua commovente bellezza.
Assieme ad Aldo Failla ho creato questo gruppo con la speranza che siano in tanti ad avere l’opportunità di fare qualcosa di storico e di importante per Lentini.
Aderite e scrivete tutto quello che volete: domande, suggerimenti, idee, critiche, indicazioni, ricordi, racconti, leggende, poesie,canzoni. E mandate foto, tutte le foto che avete.
Niente andrà perduto o dimenticato: abbiamo creato anche un blog dove tutto rimarrà memorizzato e sempre consultabile,il cui indirizzo è: http://sanciuseppigiustu.wordpress.com/
Stiamo per fare qualcosa di storico, faremo in modo che non sia dimenticato.