lunedì 30 giugno 2008

In Italia non ci sono solo maroni, leghisti e bocche cucite

L'autore di questo intervento si chiama Carlo Dantoni ed è parroco di una chiesa di Siracusa. Lo leggo sempre su un gruppo internet e per me è un faro. Basta uno come lui per sconfiggere mille stupidi maroni, anche se ministri. le leggi dei maroni sono terribili, fanno danni, ma normalmente vengono cancellate dagli uomini. Il pensiero, l'esempio e l'amore che insegna Carlo costruiscono vita, anima, società.

Oggi è arrivata nella mia parrocchia Maria, incinta all'ottavo mese. Partita dal Ghana, come Dio volle arrivò a Napoli dove esiste una potente centrale di smistamento di immigrati che lavora efficacemente al grido: chinare il capo e obbedire! Ma non mi interessa questo adesso, così come non mi interessa che anche delle adoratrici del Signore le hanno chiuso la porta in faccia. Fra un mese da noi è natale !!!!!!!!!!!! Preparerete i pacchi-dono? Chi di voi ha figli piccoli, sa quanto costa un bambino e in particolare un neonato. Me ne devo andare ai semafori? No, non voglio rubare il posto di lavoro a dei poveracci. E allora ? Porterete il corredino (anche usato), pannolini (nuovi però...), latte per neonati, sigarette per il padre spirituale e che cavolo ne so di altre cose ? Presumo che anche Maria dovrà essere corredata: donne! E che niente vi è rimasto di quanto vi compraste prima del vostro ultimo parto? No, non lo chiameremo Gesù. Quello nasce il 25 dicembre (però è finto anche se fa tanta atmosfera). Questo qua ancora prima di nascere fa già puzza di negro. Non è frutto di amore (come il 95% dei suoi colleghi che il mare ci vomita addosso. Sembra anzi che molti siano figli di brava gente e ottimi poliziotti della Libia). Sento dire che forse non sarà aiutato a nascere da una ostetrica. In compenso in sala parto ci saranno un paio di carabininieri che, sospettosi, assisteranno alle dilatazioni intuendo il probabile arrivo dell'ennesimo clandestino (le inventano tutte pur di entrare in Italia!). Meno male che i feti non capiscono niente, sennò ci sarebbe da temere che questo qua si rifiuterebbe di venire alla luce:quale luce? Ma tra un mese qui sarà natale!!!!! E vuoi vedere che mister Gesù vorrà anticipare i tempi del suo natale e quest'anno farne un tutt'uno a Bosco Minniti? Quello è capace... e quando poi a dicembre arriverà il natale ufficiale tutti canteranno ancora "tu scendi dalle stelle..." senza aver capito che di questi tempi lui scende dai barconi, ben nascosto nelle pance di donne stuprate. Carlo

sabato 28 giugno 2008

Razzismo, stupidità e silenzio

In un eventuale Festival della Stupidità, il ministro Maroni, col suo capolavoro “Impronte digitali a piccoli rom” vincerebbe i primi tre premi con ampio distacco sugli altri concorrenti.
Evidentemente, la giuria non terrebbe conto del carattere razzistico del progetto leghista, per le stesse ragioni per cui non ne parlo io: troppo osceno, gratuitamente cattivo, fuori dal tempo e fuori dalla cultura occidentale. Questo aspetto non merita neanche di essere commentato. Va solo rifiutato e, davanti ad una improbabile insistenza, combattuto con tutti i mezzi e senza tregua.
Ma se affrontiamo il tema solo dal quoziente di stupidità, allora se ne può parlare.
Il primo premio lo vincerebbe perché, qualora il piano andasse in porto, il costo organizzativo, “militare” ed economico sarebbe così alto da non potere essere sopportato dal suo stesso governo.
Il secondo premio lo vincerebbe perché il progetto non serve a niente: nel momento in cui le forze dell’ordine hanno davanti una persona, in pochi secondi riescono a stabilire se quella persona è in regola o clandestina (io considero osceno, stupido e razzista anche questo concetto di clandestinità applicato ad esseri umani su un qualsiasi angolo del pianeta Terra, ma questo è un altro discorso), una volta rilevato che il soggetto è in regola, le impronte non hanno ragione di essere prese, in caso contrario, lo stesso Maroni ha fatto recentemente delle leggi per allontanare il soggetto dall’Italia.
Il terzo premio lo vincerebbe perché, di fronte alle preoccupazioni di deriva razzista che vanno manifestandosi in Italia e all’Estero (Amnesty International, l’UE, ecc), egli continua a rispondere con un “Io vado avanti” che assomiglia troppo al celebre “Me ne frego” di settanta-ottant’anni fa e che è una di quelle frasi prive di significato che talvolta, quando non si sa rispondere alle obiezioni, i bambini pronunciano per guadagnare tempo e riordinare le idee.Il Papa e i cattolici militanti nei partiti che compongono la maggioranza, invece parteciperanno al “Premio per l’atto eroico ed educativo dell’anno” per la loro scelta dell’astensione da ogni presa di posizione. E che volete: tutti teniamo famiglia, pardon, tutti abbiamo scuole private da farci finanziare dallo Stato. Meglio non inimicarseli Maroni, la Lega e i padani che in questo Stato hanno il loro peso.

venerdì 27 giugno 2008

L’Archivio Diaristico e il Premio “La Lanterna bianca”

A Motta Camastra ha sede un’associazione preziosissima per decine di famiglie per le sue finalità solidaristiche e umanitarie, che onora il territorio e inorgoglisce i suoi abitanti.
Essa è sorta nel nome di Filippo Maria Tripolone, tragicamente scomparso nel 1995, per dare sostegno e solidarietà alle famiglie in difficoltà per la presenza di persone con disagio mentale al loro interno.
Tra le varie iniziative dell’Associazione ce n’è una assolutamente unica in Italia: il Premio Annuale per il Diario. Una iniziativa delicata ed originale condotta con grande vigore e indicibili sacrifici dalla signora Ada De Cola, mamma di Filippo.
Il premio è giunto alla VII edizione ed i diari pervenuti negli anni (circa 200) sono raccolti e conservati in un Archivio Diaristico che dall’anno scorso è dato in dono al Comune di Motta Camastra.
Il prossimo mese di agosto, nel Teatro Comunale di Giardini Naxos, avrà luogo la cerimonia di consegna dei premi relativi all’edizione 2008.
www.lanternabianca.com e-mail: info@lanternabianca.com
(pubblicato su "Al Qantar")

Simposio internazionale di scultura

Motta Camastra è un piccolo paese collocato a metà della stupenda Valle dell’Alcantara. È circondata dal fiume, da boschi e da montagne e sul suo cielo non è raro scorgere il lento volo dell’Aquila Bonelli. Sembra una raffinata e timida donzella medievale affacciata al balcone, poggiata com’è sopra un colle che domina la valle.
Ai suoi piedi un dono degli dei: le Gole dell’Alcantara. Questa è una delle parti più strette del fiume, dove esso si ingola, per circa 400 metri in uno spettacolare e impressionante canyon. Ha una larghezza media di 5 metri (ma in alcuni punti addirittura inferiore ai 2 metri) e pareti di prismi basaltici che in alcuni punti raggiungono altezze di circa 50 metri. Un fenomeno naturale che creato pareti come giganteschi bassorilievi scolpiti nella roccia: ciclopiche corde di pietra lavica allungate e affastellate, ora dritte, ora arcuate, ora orizzontali, ora inclinate… colossali opere d’arte della natura donate alla riservata e fascinosa Motta Camastra.
A sua volta la cittadina, all’interno di un progetto di promozione e valorizzazione della Valle Alcantara, rendendore omaggio alla natura ha istituito un Concorso Internazionale di Scultura, perché altre pietre, benché più piccole, siano manipolate, ricevano e conservino i segni dell’arte, per continuare a ricordare al mondo la gratitudine dei mottesi per il dono delle Gole.
Dal 2 all’8 di giugno quindici artisti provenienti da tutto il mondo realizzeranno le loro opere a Fondaco Motta, la frazione di Motta Camastra situata proprio sulla sponda del fiume Alcantara.
La sera dell’ultimo giorno le opere saranno premiate nella piazza di un altro paesino della Valle, Graniti. Un modo elegante e generoso di ricordare che benché le Gole ricadano in territorio Mottese, la loro bellezza appartiene all’intera valle. Ma anche l’occasione per rendere omaggio ad un grande scultore del luogo, Giuseppe Mazzullo, nato proprio a Graniti e scomparso nel 1988, reso immortale, oltre che dalle sue opere, anche da una Fondazione che prende il suo nome.
Pubblicato su “Al Quantar”

giovedì 26 giugno 2008

Cade il silenzio sull'Antico Lavatoio

Quasi un anno fa un incendio distrusse l’Auditorium Comunale di Lentini, l’Antico Lavatoio
Era già molto vecchio, obsoleto, con le sedie sporche e in gran parte rotte, esposto a continui furti. Ma c’era.
Ancora oggi non si sa quali furono le cause dell’incendio e neppure se, nell’eventualità di una ricostruzione, ci si dovrà attenere a riprodurre l’esistente o ci sarà la possibilità di approfittarne per una diversa ripartizione interne, non si sa neanche se da qualche parte, a Palermo, Roma, o Bruxelles, sarà possibile accedere a finanziamenti. Insomma, non si sa niente.
Forse è noioso ripetere come una comunità per crescere culturalmente abbia bisogno delle occasioni di incontro e di confronto. Forse è inutile ricordare che grazie alla disponibilità dell’ex lavatoio, pur così vecchio e inadeguato, per oltre un ventennio si sono tenute decine e decine di iniziative culturali, politiche, artistiche, che senza di esso non avrebbero mai visto la luce. Ma credo possa avere un significato ricordare che in questa città, nel dopoguerra, ci sono state quattro manifestazioni seriali, che hanno avuto ed hanno una forte proiezione esterna. La prima, meritatamente indimenticata e che ha portato un prestigio illimitato alla città, fu il Premio Lentini, anche se si svolse, negli anni ’60, solo per tre edizioni; la seconda, anche questa molto prestigiosa e che ormai ha superato il ventennio di vita e le 13 edizioni, è il premio di poesia dialettale organizzato dal Kiwanis Club e intestato a Ciccio Carrà Tringali; la terza è il Premio “Pisano Baudo” organizzato dall’Archeo Club, a partire dal 1991 e giunto alla diciassettesima edizione; la quarta è quella del San Valentino in Poesia, ormai all’undicesima edizione.
Quattro iniziative di questo genere in una città tutto sommato molto vivace dal punto di vista artistico e culturale forse sono poche, ma esse sono nate grazie ad una condizione essenziale: la disponibilità di un luogo che sia prevedibilmente disponibile anche per le edizioni future e che sia considerato “pubblico” sia da chi organizza che dalla cittadinanza. Chiunque dev’essere autorizzato ad entrare. Questi requisiti li avevano sia la Biblioteca Comunale di via Arrigo Testa, da cui ebbe l’avvio il Premio Lentini, sia l’ex lavatoio comunale, che permise la nascita del Premio Carrà Tringali, del premio “Pisano Baudo” e del San Valentino in poesia.
Da quasi un anno, in una città di venticinquemila abitanti, non c’è nessuna struttura con queste caratteristiche.
Il Comune oggi è in grado di mettere a disposizione della collettività solo una saletta di una quarantina di posti, inaccessibile alle persone disabili, raggiungibile con difficoltà per gli anziani e per di più negli stessi locali dell’archivio storico e di un ufficio comunale.

(pubblicato su "Murganzio" il 26/6/2008

mercoledì 25 giugno 2008

Mostra di lava e ceramica a Motta Camastra

Motta Camastra ha ricevuto il dono dei paesaggi: da ogni via, da ogni piazza, da ogni abitazione, da ogni finestra è possibile godere di viste straordinarie: i boschi, l’Alcantara, la Vallata, i paesi attorno al fiume. Ma c’è una presenza, tra la sterminata bellezza che la natura offre allo sguardo dei mottesi, che va oltre la sua stessa incomparabile maestà: è l’Etna, immobile, eterna, severa, ma sempre diversa. L’Etna cambia colore e luce con il cambiare delle stagioni, con il cambiare del tempo metorologico, col cambiare delle ore e del vento, ma anche con l’umore e lo stato d’animo di chi la guarda. Quante foto, quanti dipinti, quante poesie, riflessioni, pensieri ha ispirato!
Non potevano i Mottesi non ricordarsi dell’Etna e del suo frutto, la lava, in occasione delle manifestazioni finalizzate alla valorizzazione e alla promozione del territorio.
Ecco il motivo per cui si fa una mostra mercato delle produzioni artistiche e artigianali realizzate con la lava. Un omaggio alla Sicilia e all’Etna, ma anche a un popolo creativo e tenace, fantasioso e gioioso che lavora, leviga, taglia, incide, dipinge, ricopre di colore e di segni la pietra nera eruttata dalla Grande Signora. Ed un regalo ai visitatori di buon gusto.
(Pubblicato su "Al Qantar")

I Sikania

Venerdì 27 giugno al Glamour, il ristorante pizzeria di contrada Sabbuci, accanto alla piscina e tra gli ulivi, ha ospitato un concerto dei Sikania. La performance è stata seguita da un pubblico attento ed entusiasta, e così numeroso da sottoporre a durissima prova la stessa organizzazione.
Il gruppo dei Sikania è abbastanza noto emolto apprezzato a Lentini e nei comuni viciniori, ma la loro bravura e al loro spessore artistico non è certamente da ambito locale. Prendendo linfa, ispirazione e motivazioni dal grande ceppo dei canti tradizionali siciliani e mediterranei, la musica dei Sikania evolve per diventare canzone d'autore post folclorica. Le composizioni di Massimo Gullotta, autore anche dei testi (talvolta con la collaborazione di Luisa Zarbano) e le rielaborazioni di alcuni classici di Modugno, Battiato, Buttitta, Balistreri, Formisano sono prodotto artistico raffinato e colto e creano atmosfere di grande fascino, di suggestioni, di incantamento. Bruno Massimo Gulotta è lo sciamano che raccoglie gli ingredienti per le sue geniali pozioni magiche (pardon, composizioni) nel vissuto e nei sentimenti, nella storia e nella sofferenza, nelle speranze e nel calore del popolo siciliano, che conosce il mistero del respiro più profondo della sua isola; che sa condurre l'ascoltatore ad inaspettati viaggi sentimentali verso la propria anima. Luisa Zarbano è la straordinaria interprete in-cantatrice dalla voce possente, calda, vibrante e dalla presenza gioiosa e accattivante. Una pifferaia magica in grado di cambiare, con la sua voce, i colori del mondo. La voce ora drammatica, ora gioiosa degli struggenti brani che narrano di vita e d'amore, di dolore e rimpianto, di sconfitte e voglie di riscatto, di storie individuali e collettive mai superficiali, mai banali, mai convenzionali. A completare il gruppo, tre musicisti, tutti lentinesi, di notevole esperienza, ancorché giovani, e grande sensibilità, che hanno saputo entrare con facilità e convinzione mondo musicale "gullottiano", apparentemente distante da quello giovanile: Luca Pattavina alla chitarra, Francesco Di Grazia al basso e Alessandro Borgia alla batteria.
(pubblicato su "Il Murganzio)

I Giampuliroti a Lentini

Sono pienamente consapevole che in poco spazio non è possibile esprimere compiutamente l’omaggio, l’ammirazione e la gratitudine ad una comunità “sorella” di quella lentinese, che a Lentini ha dato molto. Ma proprio qualche giorno fa c’è stata una ricorrenza, perciò questo mi sembra un buon momento per parlarne. La ricorrenza a cui mi riferisco è la festa della Madonna delle Grazie. La comunità è quella dei “giampilieroti”. Il legame tra la festa e la comunità credo lo conoscano tutti. Questa è la festa che quasi una quarantina d’anni fa fu introdotta a Lentini proprio dai nostri compaesani d’origine messinese. Si svolge l’ultima domenica d’aprile. Nel periodo in cui, finita la campagna agrumaria, i giampilieroti di allora, che venivano qua per lavorare, tornavano al loro paese. La Madonna delle Grazie è la Patrona di Giampilieri. Lasciando Lentini, quindi, andavano a ritrovarla. Il suo Santuario è a mezza costa su una collina dirimpetto al paese. Per giungervi bisogna fare mille scalini. Dopo sei mesi di lavoro massacrante, lontano da casa maschi e femmine, giovani ed anziane, vi salivano in pellegrinaggio per raccontarle le gioie e le sofferenze del trascorso inverno, le fortune e le sfortune della campagna agrumicola, gli incontri felici e le difficoltà di relazionarsi con la città ospitante, per mostrare i bambini nati da poco e per raccomandarle l’anima di chi li aveva lasciati, per pregarla di vigilare sul figlio partito militare o sulla figlia appena sposata, per ringraziala per avere fatto trovare i loro anziani genitori ancora vivi e per avere dato loro la salute. Eppure ebbero questo pensiero straordinariamente delicato, rispettoso di Lentini, oltre che della loro protettrice: il pensiero di ringraziare la Madonna anche qua, a Lentini, prima di lasciare il luogo del lavoro per altri sei mesi. Qua, davanti ai loro nuovi concittadini. Forse per insegnare loro come si prega e si ringrazia, forse per mostrare che la loro gratitudine era sincera, forse per donare a noi un po’ della loro anima. Allora, quando questa festa ebbe inizio, già molti di loro svolgevano qua un lavoro continuativo, slegato dalla stagione della raccolta e dalle attività connesse alla commercializzazione dell’arancia. E furono proprio questi un po’ più “lentinesizzati” a dedicare il loro tempo, molte risorse economiche, la loro devozione per fare nascere una chiesa per la loro Madonna, la Cristo Re, - ricordate? - all’inizio in un garage in piazza del Popolo per dare l’avvio a quella che ormai è una festa cittadina a tutti gli effetti. Sono tanti i nomi che andrebbero ricordati, ma certamente me ne sfuggirebbero troppi. Cito solo i signori Santo Scionti e Antonino Carbone, personaggi di straordinaria umanità e generosità, instancabilmente al servizio dei loro compaesani. La nascita della Chiesa Cristo Re, l’istituzione della Festa della Madonna delle Grazie e il nobile pensiero che li animò sono motivi più che sufficienti per guardare i nostri nuovi concittadini come parte integrante e insostituibile della nostra città Ma i giampiliroti ci hanno dato tanto altro cose anche sul piano pratico. A partire dal dopoguerra trovarono a Lentini la “piazza” adatta ad ospitarli e ad ospitare la loro esperienza commerciale. La loro epopea di coltivatori e commercianti di limoni, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia, si interruppe bruscamente attorno al 1930, per una catastrofica epidemia, la gommosi, che colpì e distrusse i loro fiorenti limoneti di collina (ancora oggi è possibile vedere le tracce di terrazzamenti su declivi vertiginosi; dove, proprio da loro, fu scoperto il modo di produrre la varietà “verdello”). Da quel momento, per sopravvivere, divennero un popolo di “trasfertisti”, un popolo che si trasferiva dove c’erano agrumeti, per lavorare, per guadagnare di che vivere, ma anche per esportare la loro sapienza e la loro abilità nel commercio. A partire erano le famiglie intere e nei luoghi in cui si fermavano mantenevano la loro identità, i loro costumi, le loro tradizioni, il cordone ombelicale che li teneva legati a Giampilieri. Soprattutto mantenevano un fortissimo senso della famiglia e della solidarietà e una cultura del lavoro assolutamente unica. Il lavoro per loro era cosa sacra. Andava fatto al meglio delle proprie forze, con il massimo rispetto, senza lesinare sacrifici. Questo li portò ben presto ad affermarsi e a padroneggiare i mercati. Inventarono il “deposito”, la cui attività talvolta fu denigrata al punto da essere definita parassitaria. Il deposito divenne ben presto un supporto preziosissimo per il commercio e per i piccoli produttori. Era una banca delle arance. Quando il mercato frenava permetteva di raccogliere arance a rischio di caduta e conservarle per i momenti migliori, quando il mercato accelerava permetteva ai commerciati di trovare immediatamente la merce occorrente; quando si verificavano lunghi periodi di piovosità permetteva di mantenere gli impegni con i mercati del nord e di non perdere la clientela. Se Lentini visse quel grande periodo di ricchezza, da cui scaturirono le condizioni per uno slancio culturale rimasto nella storia della città (il Centro Studi, il Premio Lentini, il Ponte, ecc.) buona parte del merito si deve anche a quegli ingegnosi commercianti, ai “mastri” di magazzino e alle loro famiglie. Oggi molti dei loro figli sono lentinesi a tutti gli effetti e sono parte attiva, positiva e propositiva della città. Tanti svolgono le attività dei loro padri, ma ancora di più sono i professionisti, gli insegnanti, gli impiegati, gli agricoltori, gli artigiani e negozianti. Ora i cognomi Restuccia, Carbone, Pantò, Aloisi, Scionti, Micale, Panarello, Zagami, Manganaro, Rizzo, Locondro, Grimaldi, Maimone, Sorrenti non suonano più “forestieri”. Ma loro, per fortuna, mantengono forte anche gli insegnamenti dei loro padri.
(pubblicato su "Murganzio)

Carlo Lo Presti

Il 2 Aprile scorso è caduto il trentanovesimo anniversario della morte di Carlo Lo Presti. Un uomo da ricordare non solo per le sue opere e il suo impegno, ma anche perché il suo esempio di artista e intellettuale al servizio di un progetto culturale è sempre di freschissima attualità. Dedicò tutto se stesso a un sogno: fare della sua città una piccola capitale della cultura, del teatro, della poesia. Avrebbe potuto andare via. Forse avrebbe dovuto. Per conoscere, per farsi conoscere, per cogliere i successi che il suo talento gli avrebbe garantito. Invece rimase sempre nella sua Lentini. Sapeva che perché la sua città diventasse importante nessuna risorsa doveva esserle sottratta. Lentini, in quegli anni, importante lo era. Ma per altri aspetti. Erano gli anni del grande risveglio, dopo la lunga notte della guerra. Il movimento sindacale e bracciantile avviò battaglie memorabili, che non riguardavano solo i salari; ebbe larga eco in tutta Italia lo "sciopero a rovescio", il lavoro abusivo nelle terre incolte di quel che rimaneva dei grandi feudi; erano i tempi della Riforma Agraria e della nascita di una miriade di piccolissime aziende contadine, del prosciugamento del Biviere e dell'assegnazione delle terre bonificate agli ex pescatori; l'arancia era frutto pregiatissimo e chi possedeva due tumuli d'agrumeto era quasi benestante. Lentini era centro di produzione ed esportazione tra i primi d'Italia e la sua "stazione", la zona commerciale, pullulava come un alveare. Per la zappatura e la raccolta delle arance giungevano da ogni parte della Sicilia orientale centinaia di braccianti. Insomma erano i tempi in cui nasceva la Lentini contemporanea. Lo Presti ebbe il grande merito di intuire, assieme ad un gruppetto di altri giovani intellettuali, che una comunità moderna non può essere costruita solo sul benessere economico. C'era bisogno anche d'altro, di cultura, di arte, di sogni, di poesia. C'era bisogno di recuperare un'identità appannata, se non addirittura smarrita. Bisognava trovare le tracce, i segni, le pietre e le parole del passato di cui siamo fatti, ri-sentirsi figli di Gorgia, Iacopo, Riccardo. C'era bisogno di anima. Nacque per questo, nel '47, il Centro Studi Notaro Jacopo, che fu subito luogo di studi e ricerche, riflessioni e dibattiti e di mille attività frenetiche, appassionanti, a volte anche distanti tra loro: convegni, conferenze, rappresentazioni teatrali, studi di storia patria, dibattiti politici, esposizioni d'arte visiva, poesia. Per dieci anni il Centro Studi fu l'anima e il motore della cultura di Lentini. Tra l'altro, anche sede di una Biblioteca Popolare, istituita dalla Soprintendenza alle Biblioteche per la Sicilia Orientale. Lo Presti era innanzi tutto uomo di teatro: autore, regista, attore, critico e storico. Il suo Sicilia Teatro, pubblicato postumo dalla moglie, è una pietra miliare per la conoscenza delle vicende, dei protagonisti, delle glorie e delle difficoltà del teatro siciliano. Fu premiato con la Medaglia d'Oro alla memoria a Vizzini, il 31 gennaio del '70. Da uomo di teatro diede il suo primo importante contributo al Centro Studi e alla città con un'attività intensissima, officina d'arte e formidabile palestra per giovani attori non solo lentinesi. Fondò e diresse il Teatro Sperimentale del Centro Studi, poi ribattezzato Piccolo Teatro del Sud. Per esso scrisse una ventina di commedie, che per il loro valore entrarono ben presto in cartelloni importanti, come quello del Teatro Stabile di Catania e nel repertorio di Turi Ferro e Ida Carrara, di Michele Abruzzo e Mario Piazza, di Pippo Pattavina e Tuccio Musumeci. Tra i registi delle sue opere anche un ancora giovanissimo Andrea Camilleri. Tra gli scenografi perfino Renato Guttuso. Molte commedie hanno un posto di rilievo nel panorama teatrale italiano: Referendum, Attesa sulla riva del fiume, Alluvione, Democratici di provincia, Pensione 23, Quello della prima fila, Cose turche!, Sicilia la nuit, ecc. I temi che più gli stavano a cuore ed affrontava con mirabile efficacia erano il modificarsi dei costumi, i nuovi rapporti tra genitori e figli, la speranza di una società nuova in cui i sentimenti, l'amore e l'amicizia prendessero il posto dei pregiudizi, degli egoismi individuali e di classe. Fu tra i protagonisti, assieme agli altri del Centro Studi, tra cui spiccavano per competenza, passione e carattere i vari Alfio Sgalambro, Carlo Cicero, Mario Ciancio, di una incisiva e coinvolgente iniziativa, durata anni, per ottenere che si avviasse un campagna di scavi per portare alla luce i resti di Leontinoi. Furono loro, studenti e giovani professionisti, studiosi di archeologia per diletto e per amore della loro città, ad individuare esattamente con geniale intuizione, il sito di Leontinoi, dalla lettura di Polibio. Venute alla luce le imponenti vestigia di Leontinoi e una grandissima quantità di reperti, risultò relativamente facile ottenere l'apertura del Museo Archeologico. Nel 1957 l’Amministrazione Comunale costituì la Biblioteca Civica Riccardo da Lentini e ne affidò la gestione ad un Consiglio d Amministrazione autonomo, in gran parte composto dai dirigenti del Centro Studi. A Carlo Lo Presti fu affidato l'incarico di direttore. Fra le manifestazioni programmate e realizzate dal Consiglio d’Amministrazione della Biblioteca, rimane indimenticabile, per lo straordinario successo ottenuto in tutti gli ambienti culturali italiani e per la quantità e la qualità dei partecipanti, il Premio Lentini, di cui Lo Presti fu segretario. Per farsi un'idea del prestigio e del valore del Premio Lentini, forse è il caso di leggere i nomi di alcune personalità che a vario titolo vi collaborarono: Leonardo Sciascia, Giuseppe Fava, Giorgio Caproni, Giuseppe Ravegnani, Marino Moretti, Mario Gori… Tra i premiati Alberto Bevilacqua, Turi Vasile, John Rudolph Wilcock, Giuseppe Villaroel. Il 2 d’aprile del ’69, a soli 49 anni, Carlo Lo Presti lasciava la moglie e compagna d’avventure Rosina, i figli Lello e Antonello, la Biblioteca, il Premio, la sua Lentini i tanti amici sparsi in tutta Italia. Il Premio Lentini, ebbe solo un’altra edizione, portata a termine da Filadelfo Pupillo e Gianni Cannone. Credo possa affermarsi che la sua fu una grande storia d’amore con la sua città. D’amore reciproco. Perché Carlo Lo Presti fu un grande intellettuale (fu anche scrittore, storico, affermato giornalista e acuto caricaturista) che, a differenza di tanti altri del passato e del presente, non operò pensando alla sua gloria, alla carriera o al denaro, ma sempre per migliorare la sua città, per offrire bellezza ai suoi concittadini. Negli anni ’90 il Comune, grato, gli ha intestato una via cittadina ed il Teatro Odeon, per ricordarlo alle generazioni a venire. Ma c’è un modo per mantenerlo vivo: seguire il suo insegnamento.
(Pubblicato su "Murganzio)

Graziella Vistrè

Undici anni fa moriva Graziella Vistrè: una femminista ante litteram che Lentini preferisce non ricordare Forse è inutile sperare che Lentini voglia ricordare Graziella Vistrè. Essa è tra le poche città d’Italia che da due legislature non riesce ad eleggere una donna in Consiglio Comunale. Né ne ha alcuna in Giunta. Graziella Vistrè, invece, fu consigliere comunale per quasi vent’anni e assessore per una decina. Ma per tutti gli anni in cui rimase a Lentini (fino all’82) fu principalmente e senza interruzioni sindacalista e operatrice di patronato. Una presenza scomoda, insomma. Un esempio pericoloso. Giunse a Lentini, da Bagheria, nel 1962, lo stesso anno in cui, a dicembre, compì cinquant’anni. Un’età in cui a quell’epoca una donna era considerata (e si considerava) vecchia, ormai inadatta a qualsiasi attività. E fu un ciclone. Dedicò tutte le sue energie all’emancipazione delle donne lavoratrici (le “’ncattatari”). Si batté contro il loro sfruttamento nei magazzini e per l’equiparazione salariale, per i servizi igienici riservati alle donne (oggi è difficile perfino immaginarlo, un problema di questo tipo, vero?), contro le molestie sessuali, contro le violenze nell’ambito familiare. Nel film “Graziella fumava le alfa” Luigi Boggio racconta di avere assistito a “lezioni” che la Vistrè teneva per le donne lavoratrici, alla Camera del Lavoro, sul Piano Regolatore Generale, nei primi anni ’70. Molti la ricordano ancora, con la voce roca e la sigaretta senza filtro sempre in bocca. Fumava le alfa, forse per fare capire agli uomini che non si sentiva inferiore a loro neanche sul piano fisico. Sarà per questo che tra gli uomini (anche politici) di allora non godeva di grandi simpatie, mentre le donne la adoravano. È comprensibile. È meno comprensibile che anche molti uomini (politici) di oggi continuino ad avere tanta paura da non accogliere l’invito a dedicarle una via. Ancora meno comprensibile è il fatto che quelle poche donne che si occupano di politica oggi a Lentini non riescano a provare sentimenti di affetto, di gratitudine, di solidarietà nei confronti di una donna che faceva la stessa cosa in tempi difficilissimi, da mosca bianca, con dentro un grande senso di solitudine. Graziella nacque a Gela nel 1912 da famiglia bagherese. Morì a Palermo, ospite del fratello. Ma lei si dichiarava bagherese e lentinese. È seppellita a Bagheria. Sulla sua modestissima tomba c’è scritto “Le lotte in difesa del lavoro sono una garanzia per la conquista del diritto ad una vita civile”. Domenica 13 aprile cadrà l’undicesimo anniversario della sua morte. A Bagheria si è già deciso di intestarle una via e, per l’occasione, proiettare per la seconda volta il film di cui è protagonista e tenere un convegno su di lei, sui suoi tempi, sulla questione femminile in Sicilia. La coincidenza delle elezioni ha fatto slittare tutto al mese di maggio. A Lentini pare ci sia la volontà diffusa di fare dimenticare una donna scomoda, combattiva, senza paura. Diffusa negli ambienti politici, all’interno dell’amministrazione comunale, tra tanti ex sindacalisti, tra le poche donne che si occupano di politica a Lentini. Qui da un anno giace senza alcuna risposta il suggerimento di dedicarle una via. Troppo combattiva e senza paura, Graziella. E, per molti, anche sgradita “pietra di paragone”.
(Pubblicato su "Murganzio")

I volti e gli assassini

Tra i molti fatti di sangue che hanno sconvolto il mondo negli ultimi giorni ce ne sono due che mi hanno particolarmente colpito per avere tra di loro un punto in comune impressionante.
Il primo fatto è quello che tutto il mondo ormai conosce: l'eccidio dell'Università della Virginia. Il secondo ha avuto lo stesso rilievo del primo solo nelle pagine dei due quotidiani regionali siciliani: due giovani (28 e 16 anni) hanno prelevato da casa sua uno psicolabile, lo hanno portato in un luogo appartato e lo hanno massacrato per prendergli i 700 euro della pensione appena percepita (attenzione, sapevano bene che la loro vittima non vrebbe potuto avere un euro in più di quella somma). Non annoierò nessuno con mie considerazioni morali, psicologiche o sociologiche. Ne sono state fatte tante e ancora di più se ne faranno nei prossimi giorni.Voglio parlare, invece, di quel punto in comune di cui accennavo prima.
Il ragazzo sud-coreano che ha commesso l'orribile strage degli Stati Uniti, quando ha finito di uccidere (per stanchezza? per un'improvviso sgomento? perché aveva finito le munizioni?) ha rivolto l'arma contro di sé e si è sparato in volto. Non alla testa o al cuore, ma al volto, come per cancellarlo.
I due rapinatori del povero psicolabile siciliano hanno tentato di uccidere la loro vittima colpendolo ripetutamente con una pietra sul volto. Immagino che uccidere colpendo il volto sia più difficile che colpendo la testa. Eppure quei due assassini hanno scelto il volto. Come per cancellarlo.
Si direbbe che il primo, il pluriomicida dell'America, voleva cancellare dal mondo il volto, la memoria, tutta l'esistenza di sé stesso assassino (anche se era stato spinto da un odio "ideologico" ed aveva agito nell'esaltazione dell'"uno contro tutti"), i secondi, invece, volevano cancellare il volto, la memoria, la stessa esistenza della loro vittima (un disabile che forse nessuno avrebbe mai pianto né cercato). La vittima di questi due è tra la vita e la morte. Potrebbe, quindi, sopravvivere. In questo caso per i due carnefici non si potrebbe usare il termine "assassini". Come definirli?
(Pubblicato su "Quaderni Radicali")