venerdì 30 dicembre 2011

Un fiaba di Natale

Caro Guglielmo,
ti voglio raccontare una storia realmente accaduta e poiché è successa in questi giorni la racconterò come una storia di Natale.
Negli anni scorsi un operaio civile della marina con l'hobby del fabbro costruì una stele di metallo di circa 15 mt. tutta decorata e sopratutto realizzata interamente a mano e con pezzi di riciclo, e ne fece dono alla parrocchia di Cristo Re.
Evidentemente il parroco pro tempore ebbe qualche difficoltà a piazzarla nella sua parrocchia e la lasciò in disparte sul prato retrostante la chiesa.
Nel 2003, in seguito ad incidente stradale, morì sulla strada di Brucoli la figlia di questo mio amico, volontaria del 118 che prestava servizio al Muscatello. La cosa suscitò scalpore, anche perché la ragazza quel giorno era stata chiamata per sostituire un’altra volontaria momentaneamente impedita.
Il padre, visto che la figlia apparteneva alla parrocchia Sant’Antonio di Padova, dov’era catechista, volle impiantare la stele nel sagrato di quest’ultima chiesa, col beneplacito dei due parroci interessati.
Questa fu eretta con una breve cerimonia in ricordo della ragazza morta.
Nel 2011 la croce che sovrasta la struttura necessitava di qualche piccola manutenzione, ma per l'ideatore della struttura l'impresa diventava impossibile visto che la croce si trova a 15 metri di altezza. Il mio amico non sapeva più a chi rivolgersi , per lui era importante ridare luce alla scultura, era il ricordo della figlia, un "Angelo della strada" come lui stesso la definiva, una volontaria del 118, sempre pronta ad intervenire.
Sfiduciato, parlò con una ditta di costruzioni ed il parroco parlò con alcuni operatori, ma nessuno dei due ebbe risposte positive.
L'altro giorno Giordano Bruno (questo il nome del mio amico) si è rivolto a me ed io a Paolo Ippolito della Protezione civile, il quale a sua volta di è rivolto al responsabile della protezione civile di Carlentini, geometra Enzo Giampapa.
All’indomani, espletate le formalità di rito, eravamo sul sagrato della chiesa con autoscala con cestello, pennello e colori.
Nessuna macchina fotografica avrebbe potuto immortalare gli occhi lucidi di quest'uomo: era felice come un bambino, sopra l'autoscala dipingeva quella croce quasi gelosamente.
Ci siamo stretti vicino a lui, assieme al parroco, e abbiamo capito che un oceano è fatto di piccole gocce. E’ bastata questa catena umana per far si che il sorriso tornasse sul volto di un uomo provato.
Tonino Lieto

Che c'entra la passione?

Non è vero che quello di Licodia Eubea sia un delitto passionale.
È un delitto sessista. È un bestiale, inaccettabile, terribile arcaico delitto sessista. Un delitto tipico: il maschio che uccide una femmina.
E non ha territorialità, limiti di età, ambiti culturali. Soprattutto non ha niente a che fare con la passione, con l’amore, con un sentimento qualunque. Nasce da un cattivo virus che colpisce solo gli uomini ed è difficile da debellare. Ci vorrà molo tempo, educazione, cultura. È un virus che potremmo chiamare sessual-razzista. Fa credere agli uomini di avere molti più diritti delle donne. E nel rapporto a due è devastante. Secondo questi esemplari rimasti fermi nei secoli passati, la donna non ha il diritto di rifiutarli, di lasciarli, di cambiare idea, di stancarsi di un rapporto, di giudicare un uomo incapace, inadatto a lei, noioso. Queste sono prerogative che solo l’uomo può esercitare, non la donna. E siccome le leggi non costringono le donne a camminare dentro quei viottoli recintati di divieti, ecco che l’uomo si fa carico di difendere la “posizione” nel modo più semplice: eliminando la donna. Oltretutto lui è quasi sempre più forte fisicamente e può farlo. Non c’entrano proprio la passione, l’amore, il dolore per l’abbandono, eccetera eccetera. L’assassino, come in questo caso, dopo avere tolto la vita , scappa nel tentativo di arsi una vita senza di lei, altro che amore e passione. L’ha punita e forse si aspetta la gratitudine degli altri uomini.
Non è stato un delitto passionale ma solo un brutale, violentissimo, imperdonabile delitto.

mercoledì 14 dicembre 2011

Preoccupanti fenomeni razzisti

Cosa succede in Italia?
Nel giro di pochi giorni è accaduto che alcuni scalmanati (pare facenti parte di un gruppo organizzato di ultrà) hanno dato fuoco ad un campo rom, dove solo per caso non ci sono stati danni a persone;
un filo-nazista ha ucciso tre ambulanti senegalesi ed altri ne ha feriti; alcuni adepti di un circolo di estrema destra di Roma sono stati bloccati quando si accingevano a mettere in atto attentati contro la comunità ebraica di Roma.
Ci sarebbe di che preoccuparsi anche se tutto ciò fosse accaduto in questo breve periodo solo per caso. Ma si può escludere che un tam-tam sotterraneo non abbia avviato un percorso?
E in questo malaugurato caso ci sarebbe solo da preoccuparsi?
La brutta bestia razzista e xenofoba e il nazismo hanno provocato così tanti lutti, dolori e danni che la semplice preoccupazione potrebbe rivelarsi pericolosamente insufficiente.
C’è bisogno di una mobilitazione generale.
Le forze dell’ordine devono ricordarsi ogni giorno che l’Italia è uno Stato che ha messo fuorilegge il fascismo con le sue leggi razziali; le forze politiche legiferino per prevenire ogni forma di deriva fascista e razzista;
e noi cittadini qualunque abbiamo il dovere di vigilare, di non chiudere hli occhi, di non girare le spalle davanti a violenze e soprusi di stampo razzista.

La piccola grande eroina Franca Viola

Da siciliano considero il 17 dicembre una data da segnare in rosso.
Il 17 dicembre del 1966 vi fu un processo. Otto uomini furono condannati. Uno di essi per sequestro di persona e violenza sessuale, gli altri perché complici. Un fatto di cronaca nera, dunque? No, un fatto che cambiò la Sicilia. E soprattutto una tappa fondamentale nel processo di emancipazione delle donne nell’isola e in Italia. Di quegli uomini non vale la pena di parlare: uomini da niente. Vorrei parlare invece di quella che fu la vittima della violenza e del sequestro e che diventò un’eroina a cui forse la Sicilia e le donne di tutta Italia devono molto. E vorrei parlare anche del rapporto uomo-donna (o, se volete, del rapporto donna-società) fino a meno di mezzo secolo fa in Sicilia.
Nel dicembre del 1965 ad Alcamo, in provincia di Trapani, una ragazzina di 17 anni viene rapita in casa sua. Il capo dei rapitori è un giovane del luogo, come i sette altri giovani che lo aiutarono. Il rapimento avvenne in pieno giorno dentro il centro abitato. Molti videro e avrebbero potuto intervenire, ma si girarono dall’altra parte. Semplice vigliaccheria o omertà? No. Non intervenne nessuno perché ciò che stava accadendo era semplicemente un modo di giungere al matrimonio.
Nella Sicilia di quegli anni la donna non aveva alcuna autonomia. Era “cosa” dell’uomo. Per mantenere questo privilegio la società del tempo aveva un sistema vigente da secoli: l’arma dell’onore.
Come funzionava? Semplice. Una donna che perdeva la verginità non era più degna di essere sposata da nessuno. Era disonorata. E l’uomo che l’avesse preso in casa sarebbe stato un disonorato a sua volta (un cornuto).. L’unico modo per recuperare l’onore perduto, per la donna, era quello di essere sposata da chi le aveva tolto la verginità. Da questo semplice assioma derivavano due cose: la fuitina consensuale e quella non consensuale. La prima la mettevano in atto i ragazzi che si amavano e non potevano sposarsi senza il consenso dei genitori. Scappavano, tornavano dopo pochi giorni, facevano sapere al mondo che lei non era più vergine e l’eventuale accordo dei genitori di lei con qualche altro pretendente saltava. Anche questi accordi tra famiglie senza badare troppo alla volontà dei ragazzi era un fatto diffuso. La ragazza, dunque, rientrava disonorata e l’unico modo per tornare onorata era quello di sposarsi col ragazzo che aveva scelto. Il secondo tipo di fuitina era molto più violento, ma in linea con il pensiero prevalente secondo il quale a donna era un oggetto. Lo spasimante respinto dalla ragazza o dalla sua famiglia, rapiva la fanciulla, la violentava e lo faceva sapere in giro. L’aveva rovinata. L’unico modo che lei aveva per salvarsi era quello di sposare il suo violentatore. La società, trattando lei come colpevole, diventava complice del violentatore. E lo stato non era da meno: c’era un articolo del codice penale che disponeva che se la donna violentata sposava il proprio violentatore, il reato veniva estinto. Tutto si incastrava perfettamente: i ricatti sociali, la violenza, il sacro principio che la donna era un oggetto, la prepotenza, la vigliaccheria, la paura, l’omertà. Era la Sicilia di quaranta-cinquant’anni fa.
Illustrata la situazione generale, torniamo alla diciassettenne di Alcamo che subì la prima violenza e doveva essere destinata a subirne altre per tutto il tempo in cui la sua vita sarebbe durata.
Si chiama Franca Viola ed è ancora viva. Lei dopo nove giorni di sequestro e quando tutto il paese era stato sapientemente informato che non era più vergine, anziché rassegnarsi ad un destino scritto da una società ingiusta, arretrata, violenta, decise di sfidare tutti i ricatti, i pericoli, le minacce che non solo il violentatore, ma l’intera comunità le mettevano davanti. La comunità si sentì tradita da lei, non da lui. Lei si stava ribellando alle leggi e alle tradizioni,e non avrebbe dovuto. Lui stava rispettando quelle leggi e quelle tradizioni. Ma Franca, la diciassettenne Franca Villa che era anche piccola e molto bella, era una roccia, non si spaventò di niente. Denunciò il mascalzone che le aveva strappato la verginità e il futuro. Fu la prima a farlo. Il 17 dicembre del 1966, la condanna. E da quel giorno, prima del ’68 e dei movimenti femministi degli anni ’70, le condizioni della donna siciliana cominciarono a cambiare in meglio. Tutte le donne, tutte le ragazze di oggi devono conoscere la storia di Franca Viola e devono ricordarla con gratitudine come una splendida eroina.

lunedì 12 dicembre 2011

La lettera che vorremmo leggere (e forse non sarà mai scritta)

On.le sig. Presidente Fini,
Le scrivo per comunicarLe le mie irrevocabili dimissioni da Deputato.
La situazione in cui mi trovo è insostenibile. Ho un buon rapporto con i miei concittadini e quando i lavori della Camera me lo permettono trascorro molto tempo tra loro. Molti di essi sono persone umili e semplici, operai, pensionati e casalinghe. Da qualche settimana sono molto più preoccupati di prima per il loro futuro e per quello dei loro figli.
Questo ultimo fine settimana non sono andato al mio paese per timore di incontrarli. Se qualcuno mi avesse chiesto perché loro dovranno pagare in tanti modi il prezzo della crisi mentre noi deputati non stiamo rinunciando a niente non avrei saputo come rispondere.
Ma io al mio paese voglio tornarci e voglio continuare a incontrare i miei concittadini per strada, al bar, in qualche convegno. E non voglio arrossire. Loro hanno votato il mo partito perché in lista c’ero anch’io, ed hanno votato convinti che mi sarei battuto per loro.
In questa situazione mi sento un traditore e i soldi che prendo mi sembrano rubati.
Naturalmente ho informato il mio capogruppo e il egretario del mo partito.
Le auguro buon lavoro nell’interesse del Paese e dei cittadini più bisognosi.

con rispetto
On.le XXX XXX

La stupidità del razzismo

Quando le teste sono vuote o marce o prive di idee e di princìpi e di cultura il problema è quello di inventarsi qualcuno che sia peggio di loro. Questa continua invenzione i chiama razzismo. Le vittime sono sempre quelli che nel contesto in cui vivone le teste marce sono più deboli, più fragili, più facili da aggredire. Per questa ragione i razzisti sono anche vigliacchi. Essere aggrediti solo per soddisfare il barbaro bisogno dei razzisti una volta tocca ai neri d'america, una volta agli ebrei, una volta agli zingari... La stupidità di una ragazzina è solo una bella scusa. Domani lo rifaranno se un altro scemo dirà che il cane di uno straniero cgli ha fatto pipì sul muro. Ma non tutti gli stranieri correranno rischi, solo quelli poveri.

domenica 11 dicembre 2011

Lentini 1966 - Un avvenimento che fece epoca

Il 13 dicembre del 1966, dopo dieci giorni consecutivi di sciopero dei braccianti e dei lavoratori dei magazzini di agrumi, e al terzo giorno di sciopero generale, l’ennesima manifestazione nella zona commerciale di Lentini venne duramente contrastata dalle forze dell’ordine. Si contarono diversi feriti sia tra gli scioperanti che tra le forze dell’ordine.
La sindacalista Graziella Vistrè, forte del grande prestigio di cui godeva per il suo quotidiano impegno in loro difesa, riuscì in pochi minuti ad organizzare un nutritissimo corteo di casalinghe e a condurlo nel “campo di battaglia”, tra i poliziotti e i manifestanti, riuscendo, così, ad interrompere lo scontro e a scongiurare un epilogo più drammatico
Cinque anni fa la società Infinity Media produsse un film documentario tratto da un mio testo, dal titolo “Graziella fumava le alfa” diretto da Alfredo Martines e da me stesso e interpretato da Lidia Costanzo (nella parte di Graziella Vistrè) e da decine di personaggi presenti durante gli scontri.
Il film non si limita a raccontare i fatti, ma mette in luce diversi aspetti di un periodo cruciale per la storia della Sicilia e dell’Italia (il boom economico, le tensioni sociali, le prime prove della strategia della tensione, la questione femminile e così via).
Nella ricorrenza del 40° anniversario il film venne proiettato al Cinema Odeon Lo Presti con grande successo. La Regione Sicilia patrocinò il lavoro ed acquistò alcune migliaia di copie del relativo DVD per distribuirlo alle biblioteche ed alle scuole dell’isola.
La storia viene raccontata parallelamente in due versioni: quella di Graziella Vistrè con un monologo che rispecchia ciò che si tramanda di bocca in bocca nei ceti popolari, e quella dei testimoni oculari, più aderente alla realtà
Dall’insieme delle testimonianze viene fuori uno spaccato di eccezionale valore storico e sociale: dai rapporti tra bracciantato, sindacato e padronato, allo sfruttamento del lavoro minorile, dalle condizioni di lavoro delle donne lavoratrici alle prime battaglie per l’emancipazione femminile, all’adesione consapevole dei giovani studenti alle istanze dei lavoratori.
Un’altra serie di interventi illustra aspetti politici e sociali dell’epoca,
elementi del complesso quadro di un momento storico che fu snodo fondamentale per lo sviluppo della Sicilia e dell’Italia: le prime denunce delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro, l’alleanza spontanea e “naturale” tra il movimento femminista e quello studentesco (entrambi ancora in nuce all’epoca a Lentini), il vastissimo ricorso al lavoro minorile, la pesantezza del lavoro bracciantile.
In tutta la narrazione svetta la straordinaria bellezza di quel corteo di donne, organizzatosi spontaneamente in pochi minuti, pronto a sfidare tutti i rischi per difendere i loro uomini in lotta e viene sottolineata la nobiltà e l’orgoglio di una intera comunità.
Graziella era nata a Gela da genitori di Bagheria il 28 dicembre del 1912 e morì Palermo il 13 aprile del 1997.
Venne a Lentini nel 1962, dopo aver già maturato esperienze notevoli nel sindacato CGIL di Bagheria
A Lentini, su una popolazione di circa ventisettemila abitanti vi erano circa sette mila braccianti ed operai nel settore della lavorazione e della commercializzazione delle arance.
Il film nei prossimi giorni andrà in onda su Antenna Uno e in streaming su La Notizia on line.…………
Nelle prossime settimane sarà proiettato al Liceo Scientifico “Vittorini”, al Liceo Classico “Gorgia” e all’Istituto Commerciale “Nervi”..

giovedì 8 dicembre 2011

Diamo un nome al nuovo ospedale

http://www.lanotizia.tv/index_tg_detail.asp?id=1546

Un ospedale nato soprattutto grazie ad una forte spinta popolare deve rimanere fortemente legato al territorio. Esso deve essere attrezzato per far fronte a tutte le malattie e gli incidenti a cui gli abitanti del luogo possono essere soggetti, ma credo possiamo sperare che anche un ospedale possa avere una sua vocazione. La nostra zona è zona a fortissima incidenza di leucemia e tumori. Speriamo siano esse patologie legate a fenomeni passeggeri ed entro poco tempo smettano di manifestarsi con così grande frequenza e virulenza. Ma oggi la realtà è questa. In un Paese civile, moderno e che guarda al presente ed al futuro un ospedale si progetta pensando anche ai bisogni specifici di quella zona. Noi nel nostro piccolo potremmo avviare una piccola rivoluzione culturale.
Potremmo decidere noi il nome da dare all’ospedale.
Un nome che tenga conto e che ricordi a tutti che qui siamo soggetti più che altrove alla leucemia, che ricordi le vittime, per lo più giovanissime, di questa patologia, che sia di auspicio perché il nostro ospedali ospiti un centro di ricerca di altissimo livello su questo male.
Questo nome non può essere altro che “Manuela e Michele”
Tutti a Lentini sanno chi erano: due bambini che all’età rispettivamente di otto e nove anni furono costretti a lasciare la vita, il loro futuro,le loro famiglie gli amici e i compagni di scuola, colpiti entrambi a breve distanza di tempo una dall’altro dalla Leucemia. Dando il loro nome all’ospedale sarà come dargli quello delle decine di altri bambini adulti colpiti dallo stesso male.
Una volta agli ospedali si davano nomi da onorare in qualche modo. Pensate al Geribaldi e al Vittorio Emanuele di Catania. L’ospedale veniva quasi strumentalizzato per onorare quelle figure. Poi si passò a nomi privi di interesse, di significato, di inventiva. Pensate al nostro ex ospedale: nel tempo si è chiamato “Civico” e “Di zona
Ecco, Ospedale “Manuela e Michele” inaugurerebbe un’altra scelta culturale, quella del nome legato al territorio e ad una patologia che in quel territorio si sviluppa. Un nome che abbia anche delle connotazioni programmatiche. Un nome che evochi la vita e le sciagure, le speranze e le volontà di un territorio.
Ma c’è dell’altro: Manuela e Michele è anche il nome di un’associazione di volontariato di cui l’intero territorio è fiero e si sente partecipe. L’associazione nata per iniziativa dei genitori delle due piccole vittime della leucemia, che ha svolto e continua a svolgere tre compiti di straordinaria importanza per l’intera popolazione.
1) è al fianco delle famiglie delle vittime di queste malattie, le aiuta a reagire e a incanalare il loro dolore in direzione di un impegno pubblico
2) offre ogni tipo di aiuto concreto e materiale alle famiglie colpite dalla malattia (informazioni, suggerimenti, consigli, supporti economici, ecc.)
3) ha dato vita a mille iniziative per la ricerca delle cause della malattie, interessando le istituzioni, la stampa e televisioni nazionali in convegni, assemblee, ecc..
Vorrei lanciare un appello accorato: MOBILITIAMOCI: Diamo vita ad una petizione popolare con cui migliaia di cittadini possano chiedere che il nome dell’ospedale sia dato dalla cittadinanza e che sia MANUELA E MICHELE.