Sono pienamente consapevole che in poco spazio non è possibile esprimere compiutamente l’omaggio, l’ammirazione e la gratitudine ad una comunità “sorella” di quella lentinese, che a Lentini ha dato molto. Ma proprio qualche giorno fa c’è stata una ricorrenza, perciò questo mi sembra un buon momento per parlarne. La ricorrenza a cui mi riferisco è la festa della Madonna delle Grazie. La comunità è quella dei “giampilieroti”. Il legame tra la festa e la comunità credo lo conoscano tutti. Questa è la festa che quasi una quarantina d’anni fa fu introdotta a Lentini proprio dai nostri compaesani d’origine messinese. Si svolge l’ultima domenica d’aprile. Nel periodo in cui, finita la campagna agrumaria, i giampilieroti di allora, che venivano qua per lavorare, tornavano al loro paese. La Madonna delle Grazie è la Patrona di Giampilieri. Lasciando Lentini, quindi, andavano a ritrovarla. Il suo Santuario è a mezza costa su una collina dirimpetto al paese. Per giungervi bisogna fare mille scalini. Dopo sei mesi di lavoro massacrante, lontano da casa maschi e femmine, giovani ed anziane, vi salivano in pellegrinaggio per raccontarle le gioie e le sofferenze del trascorso inverno, le fortune e le sfortune della campagna agrumicola, gli incontri felici e le difficoltà di relazionarsi con la città ospitante, per mostrare i bambini nati da poco e per raccomandarle l’anima di chi li aveva lasciati, per pregarla di vigilare sul figlio partito militare o sulla figlia appena sposata, per ringraziala per avere fatto trovare i loro anziani genitori ancora vivi e per avere dato loro la salute. Eppure ebbero questo pensiero straordinariamente delicato, rispettoso di Lentini, oltre che della loro protettrice: il pensiero di ringraziare la Madonna anche qua, a Lentini, prima di lasciare il luogo del lavoro per altri sei mesi. Qua, davanti ai loro nuovi concittadini. Forse per insegnare loro come si prega e si ringrazia, forse per mostrare che la loro gratitudine era sincera, forse per donare a noi un po’ della loro anima. Allora, quando questa festa ebbe inizio, già molti di loro svolgevano qua un lavoro continuativo, slegato dalla stagione della raccolta e dalle attività connesse alla commercializzazione dell’arancia. E furono proprio questi un po’ più “lentinesizzati” a dedicare il loro tempo, molte risorse economiche, la loro devozione per fare nascere una chiesa per la loro Madonna, la Cristo Re, - ricordate? - all’inizio in un garage in piazza del Popolo per dare l’avvio a quella che ormai è una festa cittadina a tutti gli effetti. Sono tanti i nomi che andrebbero ricordati, ma certamente me ne sfuggirebbero troppi. Cito solo i signori Santo Scionti e Antonino Carbone, personaggi di straordinaria umanità e generosità, instancabilmente al servizio dei loro compaesani. La nascita della Chiesa Cristo Re, l’istituzione della Festa della Madonna delle Grazie e il nobile pensiero che li animò sono motivi più che sufficienti per guardare i nostri nuovi concittadini come parte integrante e insostituibile della nostra città Ma i giampiliroti ci hanno dato tanto altro cose anche sul piano pratico. A partire dal dopoguerra trovarono a Lentini la “piazza” adatta ad ospitarli e ad ospitare la loro esperienza commerciale. La loro epopea di coltivatori e commercianti di limoni, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia, si interruppe bruscamente attorno al 1930, per una catastrofica epidemia, la gommosi, che colpì e distrusse i loro fiorenti limoneti di collina (ancora oggi è possibile vedere le tracce di terrazzamenti su declivi vertiginosi; dove, proprio da loro, fu scoperto il modo di produrre la varietà “verdello”). Da quel momento, per sopravvivere, divennero un popolo di “trasfertisti”, un popolo che si trasferiva dove c’erano agrumeti, per lavorare, per guadagnare di che vivere, ma anche per esportare la loro sapienza e la loro abilità nel commercio. A partire erano le famiglie intere e nei luoghi in cui si fermavano mantenevano la loro identità, i loro costumi, le loro tradizioni, il cordone ombelicale che li teneva legati a Giampilieri. Soprattutto mantenevano un fortissimo senso della famiglia e della solidarietà e una cultura del lavoro assolutamente unica. Il lavoro per loro era cosa sacra. Andava fatto al meglio delle proprie forze, con il massimo rispetto, senza lesinare sacrifici. Questo li portò ben presto ad affermarsi e a padroneggiare i mercati. Inventarono il “deposito”, la cui attività talvolta fu denigrata al punto da essere definita parassitaria. Il deposito divenne ben presto un supporto preziosissimo per il commercio e per i piccoli produttori. Era una banca delle arance. Quando il mercato frenava permetteva di raccogliere arance a rischio di caduta e conservarle per i momenti migliori, quando il mercato accelerava permetteva ai commerciati di trovare immediatamente la merce occorrente; quando si verificavano lunghi periodi di piovosità permetteva di mantenere gli impegni con i mercati del nord e di non perdere la clientela. Se Lentini visse quel grande periodo di ricchezza, da cui scaturirono le condizioni per uno slancio culturale rimasto nella storia della città (il Centro Studi, il Premio Lentini, il Ponte, ecc.) buona parte del merito si deve anche a quegli ingegnosi commercianti, ai “mastri” di magazzino e alle loro famiglie. Oggi molti dei loro figli sono lentinesi a tutti gli effetti e sono parte attiva, positiva e propositiva della città. Tanti svolgono le attività dei loro padri, ma ancora di più sono i professionisti, gli insegnanti, gli impiegati, gli agricoltori, gli artigiani e negozianti. Ora i cognomi Restuccia, Carbone, Pantò, Aloisi, Scionti, Micale, Panarello, Zagami, Manganaro, Rizzo, Locondro, Grimaldi, Maimone, Sorrenti non suonano più “forestieri”. Ma loro, per fortuna, mantengono forte anche gli insegnamenti dei loro padri.
(pubblicato su "Murganzio)
mercoledì 25 giugno 2008
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1 commento:
Eccomi arrivata, ed ho letto con l'interesse che il tuo sguardo sa sempre suscitare in me.
Sai osservare e raccontare il cuore di ogni cosa. Torno presto.
Ti abbraccio.
clelia
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