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Ho ricevuto i saluti di Alfio Antico.
È di nuovo a Lentini.
In questi giorni di lui parlano tutte le riviste di musica ed i giornali cosiddetti generalisti. Da poco ha inciso un CD che sta riscuotendo molto successo.
La settimana scorsa ha tenuto un concerto a Milo. Non poteva lasciare la Sicilia per tornare a Ferrara, la città dove vive, senza passare da Lentini. Qui viene spesso per riempirsi gli occhi delle immagini dei suoi amici, i polmoni del profumo del pane di casa e le orecchie dei rumori delle strade dov’è nato e cresciuto e del nostro dialetto, che con lui è diventata lingua universale.
Niente di speciale, ma per lui sono tesori di cui non può fare a meno.
Perché non c’è altro lentinese così impastato di Lentinità come lui. Poi deve partire e quella riserva la trasforma in respiro e calore per i suoi tamburi.
I suoi tamburi non sono fatti solo di pelle di pecora e legno e di abilità manuale, ma anche del respiro di Alfio, dei suoi ricordi, del suo sorriso contagioso.
Lo ricordo da ragazzino in via Garibaldi. Appariva all’improvviso. Nessuno sapeva da dove spuntasse e dove andasse a dormire. Aveva sempre dietro un codazzo di suoi coetanei che lo adoravano, che volevano vederlo da vicino, rispondere al suo radioso sorriso. E lui non negava niente.
A volte aveva un tamburo e ad ogni dieci passi doveva fermarsi per fare vibrare i ragazzi che lo circondavano. Altre volte si esibiva con un bastone da pastore, che mulinava con la velocità del prestigiatore e la precisione dello schermidore. Era artista nato, artista a tutto tondo, un incantatore irresistibile, un folletto da fiaba.
Tra le sue arti magiche primeggiava la musica. La musica mai imparata, ma nata con lui. A che serviva studiarla se lui l’aveva nel sangue, nei muscoli, nelle ossa e nei nervi?
A che serviva imparare un’altra lingua se tutto ciò che del mondo lo interessava era racchiuso nel suo dialetto arcaico?
Un giorno apparve all’improvviso a Firenze . La piazza in cui si trovava era di bellezza commovente. Decise di dire a quei muri, a quelle statue, a quelle pietre, tutta la sua emozione. E lo disse col suo tamburo. Tutti i presenti restarono senza fiato. Uno sconosciuto gli chiese di andare con lui per suonare da professionista. Da lì nacque la collaborazione con Eugenio Bennato e la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Poi con Peppe Barra, con Renzo Arbore, con Lucio Dalla, fino a Franco Battiato, Carmen Consoli, Fiorella Mannoia. Ha fatto concerti in tutta l’Italia, ma anche a Locarno, New York, Vancouver, Parigi, Londra e Los Angeles, a Buenos Aires, a Mosca e a Edimburgo.
Ma appena può lascia i nuovi amici dai nomi importanti, lascia la città in cui ha tenuto l’ultimo concerto, torna a Lentini.
Qui non racconta i sui successi, non parla di quei suoi amici e colleghi, non racconta di altre città. Qui va di corsa a cercare i compagni di un tempo e chiede a loro notizie su Lentini e fa mattino improvvisando poesie. E a tutti sorride e con tutti ricorda quella tale cena fatta solo di pane e olive, quell’altra fatta solo di pasta e cicoria, o quell’altra in cui il vino fu un po’ troppo.
Finalmente a Lentini, nel grembo materno.
venerdì 19 agosto 2011
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