mercoledì 12 settembre 2012

... e li chiamano disabili


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… e li chiamano disabili

Venni a conoscenza delle Paraolimpiadi nel 1972.
Allora non si chiamavano così e quella fu la prima edizione di interesse mondiale, la prima che si disputò nello
 stesso Paese che organizzava le Olimpiadi (in quel caso si disputarono qualche settimana dopo a Monaco di Baviera). Le gare non si svolsero negli impianti sportivi riservati ai Giochi Olimpici ma nell’impianto sportivo dell’Università di Heidelberg Insomma, per dirla tutta non mi lasciò una buona impressione: sembrava qualcosa da retrobottega, sembrava che gli atleti venissero quasi nascosti per non turbare l’animo sensibile dei cosiddetti “abili”, a suo modo, un ghetto, insomma.
Mi interessai alla manifestazione perché vi gareggiò, nel tiro con l’arco sulla sedia a rotelle, un mio idolo, mai più dimenticato: il magnifico Abebe Bikila, l’etiope che aveva vinto la Maratona di Roma correndo scalzo, di notte in un percorso cittadino che sfiorava il Colosseo, i Fori Imperiali, Piazza San Pietro. Egli vinse anche a Tokio nel ’64 e partecipò alla maratona di Città del Messico nel ’72. Un eroe che colpì la fantasia e rimase indelebile nella memoria non solo di quelli che nei primi anni ’60 eravamo giovanissimi e interessati alle vicende sportive.
La sua presenza a quelle Paraolimpiadi contribuì moltissimo a renderle popolari, ma, almeno per quanto mi riguarda, non riuscirono a togliere quel velo di tristezza, di disagio, di rifiuto nel vedere quelle donne e quegli uomini chiamati “disabili” emarginati in un palcoscenico seminascosto, lontani dagli sguardi degli “abili” (?).
Ancora si chiamavano Giochi di Stoke Mandeville, dal nome della cittadina inglese dove si erano svolte le edizioni precedenti, riservate solo ai soldati inglesi tornati dalla Guerra con gravi menomazioni
Abebe riuscì nell’impresa di fare conoscere al mondo una manifestazione poco nota, solo grazie alla sua presenza.
Ma il grande fascino che la sua figura esercitava su tanta parte del mondo era di tipo emotivo: lo straordinario atleta che correva a piedi scalzi, magrissimo e taciturno, colpito da tante sfortune, l’ultima delle quali lo aveva reso paraplegico.
Quest’anno il grande testimonial è stato Alex Zanardi. Tutt’altra figura: comunicativo, poliglotta, coltissimo, intelligente, sempre sorridente. Un uomo di grandi riflessioni, protagonista di una vita ricca di eventi, risultati, rischi, avventure. Come Abebe anche lui vittima di un incidente automobilistico che avrebbe stroncato la voglia di vivere di chiunque.
Dietro le quinte dei giochi di quest’anno, anche Augusto Pancalli, il Presidente del Comitato Paraolimpico Nazionale e vice Presidente del CONI. Anche lui ex atleta ora in carrozzina e partecipante e tre edizioni di giochi paraolimpici. Avvocato di straordinaria intelligenza e di grandi doti organizzative.
Zanardi, Pancalli, Annalisa Minetti e tutti quegli altri che non hanno vinto o addirittura non hanno partecipato ai giochi sono i migliori testimonials di un mondo che cambia.
Insomma, cosa voglio dire? Voglio dire che forse è tempo di cambiare qualche vocabolo. Forse bisognerebbe mettere da parte termini come “disabile” e “diversamente abile”, o almeno l’uso massiccio e indiscriminato che se ne fa.
Ho una cara amica che alcuni decenni fa sarebbe stata una disabile, cioè non abile alla sua stessa sopravvivenza. Invece ha frequentato le scuole e l’università, è diventata insegnante, e con una macchina adattata alle sue esigenze è riuscita a non perdere un giorno di lavoro, è amatissima da colleghi e alunni.
Tutti disabili? Rispetto a chi?

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