mercoledì 23 dicembre 2009

Buon Natale

Pur non essendo credente, amo la festa di Natale e l’aspetto con ansia. Ogni anno mi porta lo stesso regalo, ma ad ogni anno vi scopro qualcosa di nuovo. Il regalo è la sua stessa storia: la storia della nascita di un bambino, figlio di genitori in fuga da un regime crudele. Una storia che se non fosse vera sembrerebbe scritta apposta per fare riflettere molti italiani e il governo Berlusconi, leghisti in testa. LA STORIA da cui nascono i capisaldi della nostra civiltà: il rispetto e l’attenzione per il prossimo, soprattutto quando è povero, bisognoso, privo di risorse. E che in ognuno, anche il più umile e diverso può celarsi il Figlio di Dio, un genio, un uomo buono. Il 25 dicembre di ogni anno provo un gusto indicibile, una sensazione di ristoro e di rinnovamento, nel risentire quella storia e nello scoprirne altri significati. Ogni anno ha un impatto diverso con la nostra vita. Quest’anno giunge mentre c’è chi chiama “clandestini” gli stranieri più poveri e studia sistemi e stratagemmi per respingerli e rifiutare loro ogni minimo aiuto. E giunge mentre Betlemme, il paesino dove nacque Gesù sta morendo soffocata da una dura occupazione militare e da un muro imponente. Mentre gli abitanti, tutti i suoi abitanti, anche i bambini, i vecchi, i disabili, le donne incinte vivono in una prigione a cielo aperto. Come ogni anno dobbiamo augurarci che quella distanza diminuisca. E che ognuno si disseti, si ristori, si rinnovi ripassando la storia di Natale. Buon Natale. Guglielmo

lunedì 21 dicembre 2009

Una mostra d’arte per sei giovani talenti

E chi se l’aspettava più? Da anni a Lentini non si vedeva una mostra d’arte. E forse mai se ne erano viste di così raffinate. Eppure è accaduto. Il 7 e l’8 dicembre, giorni consacrati all’Immacolata, gli incantevoli saloni di palazzo Magnano San Lio, in via Garibaldi, si sono aperti al pubblico per l’esposizione di alcune opere di pittura e fotografia di sei giovani ed interessantissimi artisti lentinesi e carlentinesi. Un incanto: gli autori di inaspettato, notevole livello e l’organizzazione impeccabile. Il titolo: "Giovani artisti del nostro territorio"; la curatrice: Damiana Vinci. E proprio Damiana è la prima splendida sorpresa: una giovane lentinese “vocata” ad organizzare eventi e a valorizzare le risorse artistiche del territorio. Tra l’altro, in grado di convincere gli amministratori di Lentini e Carlentini a patrocinare l’evento e di inserire due momenti musicali che da soli facevano evento: nel corso della prima serata un concerto jazz di un quartetto formato da Carlo Cattano (sax), Salvo Amore (chitarra) Filippo Di Pietro (basso) e Franco Farchica (batteria); nel corso della seconda, l’esibizione di un quartetto d’archi composto da Noemi La Cava (violino), Annalisa Virzì (violino), Matteo Blundo (viola) e Bruno Crinò (violoncello).

EpPer non farsi mancare niente, nelle due serate una degustazione di vini e delizie gastronomiche locali.

E questo era solo il “contorno!

Il dono più grande fatto alla città è stato quello di far conoscere alcuni talenti di notevoli doti e dal futuro luminoso. Ve ne parlerò seguendo l’ordine del percorso dell’esposizione.

Prima sala: Giuliana Piccolo. Presentava opere di straordinario effetto, in cui il segno è tracciato “bruciando” la tela nera con la varechina ed è sottolineato con corde di cera nera. Opere di inenarrabile musicalità.

La seconda sala ospitava le opere fotografiche in bianco e nero di due artiste di grande capacità di suggestione: Maria Costanzo e Valentina Marino, entrambe laureate all’Accademia di Belle Arti di Catania, entrambe con esperienze anche in altre ambiti artistici (pittura, decorazione, grafica), entrambe usano la macchina fotografica per fotografare l’anima, i sogni, le ansie e le attese dei nostri giorni. Ma raccontano tematiche, stati d’animo, esperienze diverse, con sensibilità e linguaggi differenti: per questo stavano bene insieme.

Nella terza sala esponeva Christian Vecchio: tecnica pittorica e cifra estetica fuori dall’ordinario, ricercato, spirituale, incantatore. Un ragazzo gentile e modesto ma artista di livello elevato. Anche lui è laureato all’Accademia di Belle Arti di Catania.

Ospite della quarta sala era Veronica Astone, la più giovane del gruppo (tutti, comunque, al di sotto dei trent’anni). Esponeva una serie di opere con cui, delicatamente, dice la sua nel dibattito spesso sguaiato, superficiale e urlato, su culture e tratti somatici diversi da quelli europei. Bellissimi volti di donne e bambini di colore, che raccontano umanità, sofferenza, dolcezza.

Nell’ultima sala esponeva Alessandra Nastasi. L’unica autodidatta, ma anche lei dotata di grande tecnica e forza espressiva. I suoi soggetti preferiti sono i paesaggi cittadini, a cui conferisce atmosfere di grande suggestione e la natura, in particolare le rose, di cui riesce a far sentire l’odore e la delicatezza vellutata dei petali.

Grazie, Damiana, per questa mostra e per gli artisti che ci hai fatto conoscere. E ben arrivata. Nel nostro territorio c’è bisogno di arte, di bellezza e di tipi come te.

giovedì 19 novembre 2009

Il video del Convegno "1948-'49, gli arresti della Vaddàra e la strage di Melissa".



Lentini- Aula Consiliare - Sabato 14 novembre, ore 18

venerdì 6 novembre 2009

Padre Carlo D'Antoni sul Crocifisso da togliere

Mi fa piacere condividere con gli amici che di tanto in tanto mi fanno visita questo intervento di padre Carlo D'Antoni sul dibattito nato dalla direttiva della UE i togliere i crocifissi dalle ascuole e dagli altri luoghi pubblici.
Padre Carlo è un sacerdote di Siracusa, a mio modo di vedere "un eroe del nostro tempo, per l'impegno senza sosta e senza risparmio nei confrenti dei più poveri, i più bistrattati, i più emarginati (gli immigrati).

Io sarei d'accordo per far togliere il Crocifisso dalle scuole. Ma anche dagli ospedali e da tanti enti pubblici. E questo per rispetto del Crocifisso.
Per amore di verità. Questo "segno" che altro non è che la carta di identità
del Dio creduto dai cristiani, non dovrebbe continuare ad essere usato per
ornare luoghi che forse hanno smarrito il loro spirito costitutivo. La scuola,
ad esempio, è luogo educante dove la persona è accompagnata nella sua maturazione prima umana e poi professionale (a cominciare dalla scuola primaria
e secondaria) ? Oppure, nelle aule dei tribunali, dove l'amministrazione
della giustizia non sempre è rispettosa della dignità e dell'uguaglianza
dei cittadini (sia per i tempi biblici che le sono caratteristici, sia per la
cavillosità e costo davvero scoraggianti).
E' desolante che tanti difensori del Crocifisso dicano che esso è un simbolo
della nostra cultura e della nostra storia.
Il crocifisso è un segno non di queste cose (potrebbero esserlo forse le
nostre opere d’arte anche di ispirazione religiosa), ma è segno parlante di
una rivelazione da parte di Dio, per chi ci crede. Il suo luogo naturale è
costituito da tutti i Golgota dove si continua a crocifiggere quell'uomo con il quale Dio ha voluto essere solidale. Se a qualcuno interessa sul serio il Crocifisso, deve cercarlo là e non negli uffici o nei palazzi spesso distanti dai pensieri e dal cuore di quell'uomo di Nazaret. E neanche, aggiungerei, in tante chiese ed edifici ecclesiastici.
Così come dovrebbe essere proibito stupidiare con il Crocifisso ridotto ad orecchino, accessorio di collanine eccetera. In oro, diamanti… Ma oggi si usa anche metterselo sul culo (si dice piersing?)
La vera questione secondo me è allora un'altra: è giusto che si continuino
ad eliminare, sommersi e sepolti da tonnellate di profitto ed indifferenza, i
crocifissi della terra (abitanti del terzo mondo, i nostri giovani senza
futuro, gli immigrati, i popoli devastati dal non rispetto dell'ambiente, i sottoposti ai regimi della mafia, camorra...)?
Ma so bene che questa campagna di eliminazione dei crocifissi in carne e ossa non entusiasma tante nostre associazioni che pur si dicono di ispirazione cattolica. I
crocifissi languono e ci muoiono tra i piedi. Ci inciampiamo sopra e li malediciamo
sperando che presto le nostre città vengano ripulite.
Ma giustamente, mi si farà notare che sono andato fuori strada rispetto al
tema sul quale ci è stato ordinato di perdere tempo.
padre Carlo.

martedì 3 novembre 2009

Il sindaco di Lentini e "gli amici di Iacopo" a Melissa

Il 29 ottobre si sono svolte a Melissa le solenni e commoventi iniziative in memoria della tragica giornata di sessanta anni prima, in cui tre giovani braccianti, Francesco Nigro, Angelina Mauro e Giovanni Zito, persero la vita. La manifestazione durante la quale furono colpiti a morte dalla polizia di Scelba non era dissimile dalle altre migliaia che si svolsero in Italia, e soprattutto nel meridione, tra il 1943 e il 1950: si chiedeva lavoro e l’assegnazione delle terre incolte ai contadini. E non fu neanche l’unica a concludersi così tragicamente, se in quel periodo i manifestanti uccisi furono 75, i feriti oltre 5.000, quelli processati 93.000 e quelli condannati 61.243 (i numeri, da soli, bastano a spiegare che non si trattava di “facinorosi”, come li definiva Scelba, e che le loro istanze non erano estemporanee o di tipo corporativo ).
Anche i braccianti lentinesi furono protagonisti di quella stagione di lotte. Tra questi non si contarono morti, ma neanche a loro furono risparmiati dolori e drammi: vi furono decine di feriti e centinaia di processati.
Il sindaco di Lentini, Alfio Mangiameli è stato presente, insieme ad una delegazione di cui faceva parte anche il sottoscritto. Il primo cittadino a nome della città ha espresso tutta la solidarietà al comune e alla popolazione della cittadina calabrese ed ha voluto ricordare il contributo di lotta, sofferenza e sacrificio che i nostri braccianti diedero negli anni ’40 e ’50 per il progresso e la giustizia sociale in Italia. Ed ha raccolto apprezzamenti e chiari segni di stima e simpatia da amministratori pubblici, sindacalisti, pubblico e relatori. Tra questi spiccavano il sindaco di Melissa, Gino Murgi, il coordinatore della Fondazione G. Di Vittorio, Andrea Gianfagna, i docenti Gino Massullo, dell’Università La Sapienza di Roma, Cesare Pitto, dell’Università della Calabria, Tommaso Baris, dell’Università di Palermo, il segretario della CGIL Calabria, Sergio Genco e il segretario della CGIL di Crotone, Antonio Spataro.

domenica 25 ottobre 2009

La strage di Melissa

Un anno dopo i fatti della Vaddàra, il 29 ottobre del 1949, a Melissa, allora in provincia di Catanzaro ora in provincia di Crotone, alcune decine di braccianti, spinti anche loro dall’estremo bisogno e convinti di applicare la legge, occupavano un fondo incolto di proprietà del barone Filingieri, in contrada Fragalà. Questa volta le forze dell’ordine non vollero correre rischi: spararono quasi immediatamente sui lavoratori. Rimasero sul terreno, uccisi, un ragazzo di 17 anni, una ragazza di 25 e un giovane, sposato e padre, di 33 anni, oltre a decine di feriti. Il sacrificio dei braccianti di Melissa non è mai stato dimenticato dai loro concittadini e dal movimento bracciantile e contadino italiano. Né può considerarsi vano, giacché il clamore della strage di Melissa portò sotto i riflettori le dure condizioni dei lavoratori della terra e le posizioni egoistiche e reazionarie di gran parte dei grandi proprietari terrieri, che erano anche la spina dorsale del potere politico italiano dell’epoca. A parte il tragico epilogo, sono molti i punti in comune tra i fatti della Vaddàra e quelli di Melissa, prima di tutto il contributo di idee, la volontà di emancipazione, la determinazione nel rivendicare giustizia sociale che costrinsero il Governo a promulgare la Legge di Riforma Agraria del 1950.
L’Associazione “Amici di Iacopo” (Guglielmo Tocco, Luigi Boggio, Elio Magnano) ha avviato una serie di iniziative che si concluderanno con il gemellaggio tra Lentini e Melissa.
Giovedì 29 ottobre, a Melissa si terranno delle manifestazioni in ricordo della strage di 60 anni fa. L’Amministrazione Comunale e l’Associazione “Amici di Iacopo” sono state invitate a partecipare con una delegazione.

martedì 20 ottobre 2009

61 anni fa i fatti della Vaddàra

Il 19 ottobre del 1948 Lentini e i Lentinesi scrissero una delle pagine più intense della lorostoria.
Si era da poco usciti dalla guerra e non si riusciva a fronteggiare adeguatamente la fame e la disoccupazione. Da circa un anno era in vigore il decreto sull’imponibile di manodopera, che avrebbe dovuto spingere i proprietari terrieri ad eseguire i lavori necessari sui terreni agricoli, ma una forte e generalizzata resistenza ne impediva la piena applicazione. I braccianti lentinesi, spinti dal bisogno e guidati dalla Federterra, da alcuni giorni cercavano di costringere i proprietari all’applicazione del decreto andando a lavorare abusivamente negli agrumeti bisognosi, dato il momento, di zappatura (sciopero a rovescio). La mattina del 19 ottobre, dunque, circa 85 lavoratori disoccupati scavalcarono i cancelli di una delle proprietà del barone Beneventano, in contrada Reina-Vaddara, e iniziarono a zappare. Verso le 10,30, su richiesta del proprietario sopraggiunse un nutrito gruppo di poliziotti e carabinieri per identificarli e mandarli via. L’arresto immediato e, a parere dei lavoratori, ingiustificato del dirigente delle Federterra Mario Strano (successivamente deputato all’ARS) diede vita ad una vibratissima protesta che man mano degenerò fino a diventare scontro fisico tra braccianti e forze dell’ordine. Vi furono diversi feriti da una parte e dall’altra e altri arresti. I lavoratori nella stessa mattinata inscenarono una violenta protesta presso il Municipio dove i registrarono il ferimento del sindaco Filadelfo Castro e dell’assessore Severino Ielo e vari danni a porte e vetrate. Alla fine centinaia di persone denunciate, processate e condannate.
I fatti misero in luce lo straordinario senso di solidarietà del popolo lentinese in due modi: nella stessa mattinata degli scontri centinaia di braccianti che lavoravano regolarmente ingaggiati nei fondi vicini a quello di Benventano lasciarono il lavoro per sostenere i loro compagni (per questa ragione i denunciati furono molto di più dei lavoratori abusivi); nei mesi successivi i 240 denunciati latitanti furono ospitati da famiglie di parenti ed amici; tenuto conto della necessità di cambiare spesso “rifugio”, si può calcolare che le famiglie solidali con i braccianti furono almeno un migliaio (Lentini all’epoca contava circa 6.000 famiglie)

mercoledì 7 ottobre 2009

Finalmente una prepotenza andata male (per lui)

Questa è una bella giornata. Quando a un malandrino non riesce una prepotenza è sempre una bella giornata per tutti. E se quel malandrino si chiama Berlusconi, con tutto il potere politico ed economico, con tutti quegli avvocati e quei leccapiedi che si ritrova attorno, bisogna fare due cose: inviargli una bella, lunga, stereofonica e sincopata pernacchia e andare a cena fuori. La prima l'ho fatta, la seconda la farò fra poco.
Saluto tutti con un sorriso, stasera l'italia mi sembra un po' più bella.

sabato 22 agosto 2009

Bruno Balistrocchi

Balistrocchi! Sembrava un soprannome, uno di quei nomignoli che si assegnavano tentando di rappresentare la cifra più appariscente del personaggio (a Lentini e nell’ambito calcistico c’era anche Sbalestro, il compianto Turi Di Grazia, chiamato così per via della sua magrezza e dell’andatura dinoccolata, anche se forte fisicamente e rispettabile come centrattacco). Al signor Bruno, questo “balistrocchi” come “‘ngiuriu” sarebbe stato alla perfezione: era magro e teso come una balestra ed aveva una parlata che era un patrocchio, il prodotto della fusione fifty/fifty tra il lentinese e il cremonese. D’altra parte il sig. Bruno i primi vent’anni della sua vita li aveva vissuti a Cremona ed era giunto a Lentini nel ’43, quando erano pochini a parlare o a comprendere l’italiano. L’invenzione della nuova lingua fu una necessità ineludibile. Tra i tanti allenatori che passarono da Lentini lungo i trent’anni del suo “regno” vi fu anche l’indimenticabile “Chico” Washington Cacciavillani. Questi era nato in Uruguay (lingua spagnola), si era trasferito a Milano, acquistato dall’Inter anche lui poco più che ventenne, poi si trasferì nella nostra provincia per mostrare prima ed insegnare dopo ottimo calcio. Anche Chico, dunque, per comunicare dovette inventarsi una nuova lingua, un cocktail di spagnolo, italiano e siciliano. Chi legge può immaginare cos’erano le conversazioni tra i due.
Torniamo al “Balistrocchi”. Questo era il vero cognome del sig. Bruno. Un cognome confezionato su misura.
Ce lo ricorderemmo con molto affetto e simpatia e con grande gratitudine anche se si fosse chiamato Rossi o Bianchi. Perché era davvero un uomo straordinario, gentile e generoso, anche se faceva di tutto per apparire burbero. Cominciò da semplice attacchino dei manifesti della Leonzio, poi divenne anche custode dello stadio, magazziniere e infine anche massaggiatore. Per trent’anni fu il factotum della squadra bianconera. Ed anche uno dei simboli. Ma lo amarono anche molti che non frequentavano il calcio: chiunque aveva bisogno di un massaggio, di un consiglio o di una bendatura per una storta o una slogatura poteva andare allo stadio e chiedere aiuto a lui. Il rimedio era immediato e la guarigione garantita.
Giunse a Lentini avventurosamente dopo lo sbarco degli Alleati, dopo essere sfuggito all’esercito inglese che lo aveva catturato nei pressi di Agnone. Qui conobbe la ragazza che sarebbe poi diventata sua moglie e qui mise radici, pur non dimenticando mai la sua Cremona. Sposata Rosina, con lei ebbe tre figli, Angelo, Nino e Patrizia. Angelo fece il percorso inverso di quello del padre: giovanissimo si trasferì a Cremona e lì si è affermato come manager in una grande azienda alimentare.
La Leonzio a Balistrocchi diede un lavoro (allora era così ricca e organizzata da poterlo fare) ma lui diede alla Leonzio tutta la sua vita, il suo entusiasmo, una straordinaria perizia di massaggiatore. E le diede anche qualcosa che adesso chiamiamo “logo”: un segno di riconoscibilità immediata ed unica. Negli oltre trent’anni del suo “regno” si susseguirono diversi presidenti decine di dirigenti, molti allenatori, centinaia di calciatori anche importanti. Restarono immutate solo le maglie a strisce bianconere e le velocissime corse di Bruno – i campi in terra battuta - in soccorso di un calciatore infortunato con secchio d’acqua magica, spugna e asciugamano. Quando l’infortunato si rialzava, dopo una spugnatura ed un veloce massaggio, gli applausi erano tutti per Bruno, mica per il calciatore. E alla Leonzio fu sempre fedele. Memo Prenna, monumento del calcio siciliano, alla fine del biennio trascorso a Lentini come calciatore e allenatore, tentò in tutti i modi di convincerlo di andare a Catania, dove avrebbe certamente trovato soddisfazioni economiche e professionali superiori a quelle di Lentini. Lui rifiutò senza esitazioni: la Leonzio era la sua famiglia e Lentini la sua città. Andarsene per lui sarebbe stato come tradire tutti i segreti che decine e decine di calciatori e allenatori gli avevano confidato (si sa che per gli atleti il massaggiatore è il miglior confessore).
Ci fosse stato un campionato di simpatia, la Leonzio lo avrebbe vinto per trent’anni di seguito e Bruno per trent’anni sarebbe stato capo cannoniere e pallone d’oro.
Tutti lo volevano bene e perfino l’Amministrazione comunale, quando si seppe che stava male, gli volle consegnare un riconoscimento in nome della città.
Lasciò la famiglia, la Leonzio e Lentini il 30 ottobre del 1984, ma chi potrà mai dimenticarlo?