mercoledì 25 gennaio 2012

Cosa resta dopo la follia?

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Che cosa resta dopo le quattro giornate di follia in Sicilia?
Resta una società più divisa, più povera, più depressa, più convinta di essere impotente.
Una società sconfitta e sgomenta.
Si sono bruciate enormi ricchezze e grandi speranze, si è bruciata la fiducia reciproca e il piacere della convivenza.
Si è bruciato il senso della solidarietà e la fiducia nella solidarietà.
I più poveri, i più deboli, i meno protetti adesso credono che i loro peggiori nemici siano gli altri poveri, gli altri deboli, i meno protetti.
Alcune scene odiosissime non saranno mai dimenticate: quelli che facevano il blocco davanti all’ospedale e impedivano ad una signora di andare a vedere il proprio figlio ricoverato, quelli che ad un’altra signora al panificio facevano posare il panino appena comprato, quelli che minacciavano di incendiare un bar alla fine non hanno concluso niente né in bene né in male, ma hanno lasciato una società un po’ peggiore. E carica di rancori.
La Sicilia non era una regione coesa, omogenea, compatta. Ora lo è ancora di meno.
È rimasta una regione spaccata e sfduciata.
Da una parte i cosiddetti rivoltosi pieni di rancore con chi non ha aderito ciecamente e, a loro modo di vedere, non ha permesso la vittoria schiacciante che si aspettavano. Al loro interno altre divisioni: accuse reciproche, faide, espulsioni, pubbliche denunce.
Da un’altra quelli che hanno subito tutti i disagi di una lotta lunga, dura, non compresa o non condivisa, ma obbligati a condividerne il peso.
Poi abbiamo i produttori agrumicoli che per diversi giorni (molto più di quei quattro) hanno visto cadere dalle piante le loro arance.
In un altro angolo i commercianti agrumicoli che hanno perso un discreto numero di contratti (i mercati del nord, se hanno bisogno di arance e queste non arrivano dalla Sicilia, non hanno ragione di aspettare, ci sono quelle spagnole, quelle francesi, quelle nordafricane, quelle brasiliane).
In un altro cantuccio vediamo gli ingenui che si sono buttati a capofitto e solo dopo si sono accorti di essere stati usati e portati a fare cose che non si sognavano neppure di fare.
Poi abbiamo l’angolo dei politici, rossi di vergogna e mortificati perché non avevano intuito niente e perché hanno capito che in Sicilia nessuno se li fila: né i rivoltosi né i loro elettori, né i comuni cittadini. Non esistono per nessuno. All’improvviso hanno scoperto con sgomento di essere considerati pressoché inutili, a parte il ruolo di piccolo segretariato al servizio della loro clientela.
In un angolino buio, giù in fondo, si stringono tra loro , lividi e impotenti, alcuni nostalgici fascisti che per un attimo avevano intravisto l’occasione per mostrare le loro virtù paramilitari.
Che cosa resta ancora? Tanto da fare. Tanto da ricostruire. Tanto da ripristinare.
Innanzitutto la fiducia dei siciliani in se stessi. Che la smettano di sentirsi più sfortunati, più poveri, più abbandonati degli altri italiani. E che la smettano di imitare gli esempi peggiori. Da qualche anno, è diventato di moda imitare i leghisti: addirittura c’è chi brucia bandiere e chi delira sull’idea di battere moneta.
Poi la fiducia nelle istituzioni; e sarà da questo banco di prova che nascerà un nuovo ceto politico e dirigente.
E infine una nuova cultura che non accetti compromessi con la mafiosità quotidiana e diffusa, quella della minaccia, della prepotenza, della sopraffazione, dell’accomodamento.
Insomma, c’è bisogno di una rivoluzione dolce, gentile, culturale e profonda. che ricostruisca un popolo fiero e consapevole dei propri diritti ma anche dei propri doveri, dei propri pregi ma anche dei propri limiti.
Se non si parte da qua non si va da nessuna parte.

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