Primo
maggio tra storia e quotidianità
In queste
due settimane, quella appena trascorsa e quella a venire tre parole si
intrecciano fortemente tra loro e riempiono i nostri giorni: esse sono mafia,
lavoro e morte. E con esse si intrecciano passato e presente, storia e
quotidianità.
Oggi è il
primo maggio. La festa del lavoro. Ma anche uno di quei giorni, nella recente
storia d’ Italia, in cui lavoro ce n’è di meno. C’è poco lavoro per gli operai,
pochissimo per i braccianti, è quasi del tutto assente il lavoro (qualsiasi
lavoro) per i giovani. Il lavoro dei piccoli imprenditori e degli artigiani va
così male che quasi non passa giorno senza un suicidio. Eppure in questo primo
maggio a Roma c’è un concertone. Centinaia di miglia di giovani andranno a piazza
San Giovanni per ascoltare ore e ore di musica. Servirà a qualcosa?
Dall’altro
lato il Governo ha deciso di effettuare altri tagli nelle spese previste per
l’istruzione, già ridotte all’osso dalla Gelmini. Non so a cosa servirà,
sicuramente non migliorerà la preparazione della generazione che presto dovrà
prendere il posto degli attuali professionisti, insegnanti, medici, studiosi,
ricercatori. È prevedibile che in un mondo così strettamente legato e così tecnologico
saremo ancora meno competitivi rispetto agli altri. Lavoro che mancherà anche
nei prossimi decenni.
Ma il
primo maggio riporta in mente una tremenda, indimenticabile strage, quella di Portella delle Ginestre. Fu
consumata sessantacinque anni fa. Centinaia di braccianti erano riuniti assieme
alle loro famiglie nel pianoro di Portella. C’erano mariti e mogli, genitori e
figli, nonni e nipoti. Gli uomini della banda Giuliano dalle alture intorno,
nascosti dietro i massi (ma non ce n’era motivo perché quegli altri erano
disarmati) con mitra, fucili e pistole prese a sparare senza pietà contro quel
popolo inerme. Dodici morirono sul colpo, e tra questi c’erano quattro bambini,
altri in seguito per le ferite riportate. Ad una bambina venne riscontrata
perfino una scheggia di bomba a mano. Erano tutti siciliani, sia i carnefici che
le vittime. Li rendeva nemici il lavoro. Le vittime lo chiedevano a gran voce, i
mandanti non sopportavano che i villani potessero decidere che i loro
sterminati latifondi venissero coltivati contro la loro volontà. Di mezzo c’era
Giuliano e la sua banda. Questo uomo da niente che per quattro soldi massacrò
fratelli siciliani, fratelli di fame, fratelli di sangue. Inermi.
Ieri, 30
aprile è caduto il trentesimo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre e Rosario di Salvo. Uccisi
dalla mafia.
L’altro ieri,
il 29 di aprile un guitto senza dignità né storia, che non conosce niente né
della storia d’Italia né di quella della Sicilia, a Palermo, la capitale della mafia
e la città che ha visto gli attentati a Falcone, Borsellino, Chinnici, e tanti
altri, troppi per essere ricordati tutti, quel guitto che si chiama Beppe
Grillo ha pronunciato una frase che solo a ripeterla mi fa stare male. Ha
detto: “la mafia si limita a chiedere il
“pizzo”. Il seguito è ancora più orrendo, ma fermiamoci qua. La mafia si limita
a chiedere? E Libero Grassi com’è morto, di raffreddore?
Il 7
maggio, lunedì prossimo, a Lentini ci sarà una cerimonia che fa onore all’Amministrazione
e all’intera città. Sarà scoperta un lapide per ricordare Placido Rizzotto e le
alre vittime della mafia del latifondo il cui sangue arrossò la Sicilia dal 1945 al 1950.
In questo
periodo in Sicilia occidentale, ci fu una vera e propria guerra asimmetrica: Da
un lato lavoratori e sindacalisti disarmati, che non fecero mai male a una
mosca, che lottavano caparbiamente ma pacificamente per l’applicazione di un
decreto dello Stato, il decreto Gullo, con il solo obbiettivo di ottenere in
affitto un pezzo di terra incolto da lavorare e mettere in produzione. Dall’altro
lato la mafia rurale di quei tempi, al servizio dei latifondisti e di politici
traditori dell’impegno di servire la patria, la mafia armata, che uccideva
senza pietà ed esitazioni.
Com’era
logico i morti furono solo da una parte, la parte dei lavoratori e dei sindacalisti
onesti e senza armi.
Placido
Rizzotto fu ucciso nel 1946 a
Corleone. Il suo cadavere venne occultato. Solo 64 anni dopo, nel marzo scorso,
finalmente quel corpo martoriato e occultato è stato riconosciuto. Di nuovo
l’intreccio tra passato e presente, tra lavoro, mafia e morte, tra storia e
attualità.
E di nuovo,
e ancora, c’è bisogno di mostrare la fierezza e il coraggio, la voglia di
crescere e di emanciparsi di buona parte del popolo siciliano.
Cerchiamo
di essere tutti presenti. Che si sappia in giro che in Sicilia c’è ancora gente
con la schiena dritta.
Non manchi
nessuno lunedì 6 maggio nell’Aula Consiliare di Lentini.
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