Lentini sede di un torneo internazionale. Proprio così: dal 5 al 9 di aprile Lentini sarà sede di un torneo internazionale di calcio amatoriale (seniores, esordienti e donne). E per una paio di centinaia di persone (atleti, familiari, giornalisti), Lentini meta delle vacanze di Pasqua. Avessimo incaricato un esperto del settore per portare trecento turisti per i cinque giorni che vanno dal giovedì santo fino a Pasquetta, l’avremmo pagato a peso d’oro. Invece è tutto gratis. A portarli sono stati un gruppo di appassionati di calcio, quelli del mitico “Circolo Lentini”, capitanati da Ciro Militti, in qualità di organizzatori, e Sua Maestà il Calcio, il vero trascinatore, la fabbrica di entusiasmi.
Da venerdì 6 aprile a domenica 8, al ritmo di 4 partite al giorno, nei campi sportivi di Lentini e Scordia si incontreranno tra di Loro , per categorie, squadre dell’Estonia e di Malta, dell’Ungheria e del Camerun, di Salerno e di Lentini, di Siracusa, Catania, Carlentini.
Sarà una festa straordinaria di calcio e di gioventù, di energia e di allegria, di colori e di lingue diverse, di sport e di fratellanza. E il luogo di questo incontro sarà Lentini, la mitica Leontinoi, la terrra che accolse senza ostilità Teocle e i suoi calcidesi 27 secoli fa, la patria di Gorgia il più internazionale dei personaggi dell’antichità, Lentini, città tra le predilette di Federico II, lo Stupor Mundi, imperatore di Germania oltre che re di Sicilia.
Per cinque giorni il Calcio di intreccerà con la cultura, la conoscenza di altri popoli (a Milano, Torino, Roma, Napoli, ti puoi anche non stupire, ma qui siamo a Lentini). E i nostri ospiti verranno a stretto contatto con le arance a polpa rossa di Lentini e Scordia, cammineranno sotto i rami dei verdissimi aranceti, potranno restare incantati davanti all’avifauna del Biviere, potranno toccare con le proprie mani le pietre di Leontinoi e quelle del Castellaccio, potranno visitare le Chiese di Lentini e fare conoscenza con Sant’Alfio e i suoi fratelli, con Santa Tecla e la Madonna Odigitria, potranno calpestare il suolo che calpestarono i Cavalieri Templari. E potranno seguire da vicino i riti solenni e commoventi della Pasqua di Lentini.
Gusteranno il nostro pane, i nostri prodotti tipici e le ricette del luogo, i vini di Sicilia e i dolci della tradizione, Scopriranno il cicilio e i cassateddi di ricotta, la povertà poetica e l’intimità delle uova colorate.
Scopriranno un po’ di storia locale e tutta la fierezza e l’inventiva del nostro popolo, saranno donati loro dei libri e dei video perché possano portare con sé i versi dei nostri poeti, le immagini di storie epiche di lotte bracciantili, musiche e voci del nostro territorio.
Tutto questo e molto altro sarà un (apparentemente) semplice torneo di calcio: un incontro tra uomini e donne, adulti e giovanissimi di nazionalità diversa, di regioni e città d’Italia diverse, di storie e di lingue diverse. Sarà sport, ma anche cultura, emozioni nascita di legami che non cesseranno il 9 di aprile del 2012.
giovedì 29 marzo 2012
mercoledì 28 marzo 2012
La cinquantesima bara
http://www.lanotizia.tv/index_tg_detail.asp?id=1640
Ieri è arrivata dall’Afghanistan la cinquantesima bara. La cinquantesima in otto anni. Conteneva i resti di un altro giovane italiano, Michele Silvestri, sergente nativo dell’isola di Procida.
Saremo di nuovo inondati di retorica: ci parleranno di Patria, di pace, di democrazia da difendere, di un altro uomo innamorato del mestiere. Ci ripeteranno che questa non è guerra ma missione di pace…
E poi arriveranno altre bare. E ci saranno ancora tanti feriti. E per alcuni, come l’ultima, Monica Contrafatto, non ci sono ospedali all’altezza delle cure né in Afghanistan (dove si può morire anche per mancanza di cure tempestive) né a Gela, la sua città, né a Palermo, né in qualunque altra grande città italiana. Monica Contrafatto per essere curata è stata mandata in Germania. L’Italia ha armi (aerei, elicotteri, carri armati, autoblindo, navi, cannoni, mitragliatrici, fucili, pistole, baionette, pugnali) per dare morte, ma non ospedali in grado di salvare la vita ai suoi stessi soldati. Un ambulatorio bene attrezzato costerebbe meno di un solo carro armato, ma carri armati ce ne sono tanti, ambulatori niente.
Arriveranno altre bare e altri feriti (curati altrove) una volta per un attentato, un’altra volta per una attacco, una volta perché o “Lince” non sono sicuri neanche come semplici mezzi di trasporto, un’altra per colpa del fuoco amico, poi per un attacco kamikaze e per un suicidio… Arriveranno altre bare e altri feriti per tutte le maledette ragioni legate alla guerra.
E ci saranno anche altri morti (come i due soldati inglesi uccisi due giorni fa) e vittime innocenti ed estranee alla guerra come i bambini, le donne e gli anziani sterminati dal militare USA, E ci saranno vendette e altro odio, odio nuovo, odio che prima non c’era.
Perché la guerra è (è sempre stata e sarò sempre) tutto questo. Perché questa è guerra e non “missione di pace”, Guerra e non operazione da boy scout.
Guerra, quella cosa terribile che la nostra costituzione vieta.
Guerra nascosta, guerra occultata, guerra mascherata, guerra dimenticata, guerra ignorata.
Guerra che genera mostri, come quel sergente che ha ucciso di notte 17 persone inermi.
Guerra che ci rende un po’ mostri: ricordate quante lacrime e quanti pensieri commossi per i bambini belgi morti in Svizzera? Nessuna lacrima abbiamo versato, noi che siamo buoni e che andiamo in chiesa, per i bambini afghani massacrati quela notte dal sergente USA.
Ed è anche guerra asimmetrica: Noi non siamo in guerra contro un’altra nazione, ma contro una piccola parte della popolazione dell’Afghanistan. Noi siamo ben visibili, loro invisibili, Noi mostriamo le nostre armi, loro usano quello che possono, anche la loro stessa vita. Loro giocano in casa, noi a migliaia di chilometri da casa nostra. Loro sono afghani, noi siamo stranieri occupanti. Nessuno ci guarda con simpatia e rispetto, nessuno ci aiuterà mai a sfuggire ad un attentato.
Allora tutti noi cittadini italiani abbiamo il diritto e il dovere di chiedere a voce alta:
- A che serve, oggi questa guerra?
- Quando si potrà dire “Fermiamoci, non c’è più motivo di continuare”?
- L’Italia ha la facoltà di dire “basta, non ho più vite nè soldi da spendere, io lascio”?
- Perché a tutt’oggi, dopo otto anni, tutto ciò che succede in Afghanistan non viene reso pubblico in Italia?
- Perché in un periodo di difficoltà economiche tanto drammatiche non si pensa (o non si è autorizzati) a tagliare le spese di guerra, senza le quali sarebbe possibile risanare il bilancio dello Stato?
Ieri è arrivata dall’Afghanistan la cinquantesima bara. La cinquantesima in otto anni. Conteneva i resti di un altro giovane italiano, Michele Silvestri, sergente nativo dell’isola di Procida.
Saremo di nuovo inondati di retorica: ci parleranno di Patria, di pace, di democrazia da difendere, di un altro uomo innamorato del mestiere. Ci ripeteranno che questa non è guerra ma missione di pace…
E poi arriveranno altre bare. E ci saranno ancora tanti feriti. E per alcuni, come l’ultima, Monica Contrafatto, non ci sono ospedali all’altezza delle cure né in Afghanistan (dove si può morire anche per mancanza di cure tempestive) né a Gela, la sua città, né a Palermo, né in qualunque altra grande città italiana. Monica Contrafatto per essere curata è stata mandata in Germania. L’Italia ha armi (aerei, elicotteri, carri armati, autoblindo, navi, cannoni, mitragliatrici, fucili, pistole, baionette, pugnali) per dare morte, ma non ospedali in grado di salvare la vita ai suoi stessi soldati. Un ambulatorio bene attrezzato costerebbe meno di un solo carro armato, ma carri armati ce ne sono tanti, ambulatori niente.
Arriveranno altre bare e altri feriti (curati altrove) una volta per un attentato, un’altra volta per una attacco, una volta perché o “Lince” non sono sicuri neanche come semplici mezzi di trasporto, un’altra per colpa del fuoco amico, poi per un attacco kamikaze e per un suicidio… Arriveranno altre bare e altri feriti per tutte le maledette ragioni legate alla guerra.
E ci saranno anche altri morti (come i due soldati inglesi uccisi due giorni fa) e vittime innocenti ed estranee alla guerra come i bambini, le donne e gli anziani sterminati dal militare USA, E ci saranno vendette e altro odio, odio nuovo, odio che prima non c’era.
Perché la guerra è (è sempre stata e sarò sempre) tutto questo. Perché questa è guerra e non “missione di pace”, Guerra e non operazione da boy scout.
Guerra, quella cosa terribile che la nostra costituzione vieta.
Guerra nascosta, guerra occultata, guerra mascherata, guerra dimenticata, guerra ignorata.
Guerra che genera mostri, come quel sergente che ha ucciso di notte 17 persone inermi.
Guerra che ci rende un po’ mostri: ricordate quante lacrime e quanti pensieri commossi per i bambini belgi morti in Svizzera? Nessuna lacrima abbiamo versato, noi che siamo buoni e che andiamo in chiesa, per i bambini afghani massacrati quela notte dal sergente USA.
Ed è anche guerra asimmetrica: Noi non siamo in guerra contro un’altra nazione, ma contro una piccola parte della popolazione dell’Afghanistan. Noi siamo ben visibili, loro invisibili, Noi mostriamo le nostre armi, loro usano quello che possono, anche la loro stessa vita. Loro giocano in casa, noi a migliaia di chilometri da casa nostra. Loro sono afghani, noi siamo stranieri occupanti. Nessuno ci guarda con simpatia e rispetto, nessuno ci aiuterà mai a sfuggire ad un attentato.
Allora tutti noi cittadini italiani abbiamo il diritto e il dovere di chiedere a voce alta:
- A che serve, oggi questa guerra?
- Quando si potrà dire “Fermiamoci, non c’è più motivo di continuare”?
- L’Italia ha la facoltà di dire “basta, non ho più vite nè soldi da spendere, io lascio”?
- Perché a tutt’oggi, dopo otto anni, tutto ciò che succede in Afghanistan non viene reso pubblico in Italia?
- Perché in un periodo di difficoltà economiche tanto drammatiche non si pensa (o non si è autorizzati) a tagliare le spese di guerra, senza le quali sarebbe possibile risanare il bilancio dello Stato?
lunedì 26 marzo 2012
Piccole scene di pessimo gusto
rivistadelluneddi.wordpress.com
La settimana scorsa è stato il periodo scelto per la rappresentazione di quattro scene della tragicommedia italiana.
Nessuna di esse entrerà nella storia perché i protagonisti sono piccoli personaggi ai margini della politica e perché le loro bravate non lasceranno traccia. Per alcuni si tratta di piccoli e patetici tentativi di mettersi in mostra, per altri infantilismo allo stato puro. Per tutti, storie senza importanza e senza conseguenza pratiche se non ai danni di loro stessi. Una sola consolazione: si tratta di personaggi superflui.
Edo Ronchi, l’idiota. L’ex ministro del PDL, assieme ad un gruppo di altri deputati dello stesso partito, è stato colto in una sala di Montecitorio, cioè dentro il parlamento italiano a cantare a squarciagola come una comitiva di beoni: “il 25 aprile è nata una puttana le hanno dato il nome Repubblica Italiana”. Sono parlamentari della Repubblica Italiana e si trovavano dentro il Parlamento. E prendono tanti soldi, ogni mese, da quella che loro chiamano puttana.
Romano La Russa, l’evaso. È Assessore della Regione Lombardia, e fratello dell’ex ministro Ignazio, ma fino a pochi giorni fa nessuno lo conosceva. I suoi familiari, che ne conoscono il coefficiente d’intelligenza, gli raccomandano tutte le mattine di non farsi notare. Per lui la via della notorietà si è spalancata improvvisamente nei giorni scorsi, quando ha ricevuto un avviso di garanzia per un reato piccolo piccolo ma che lo equiparava, finalmente, ai politici di rango. Inebriato dalla notorietà ha approfittato per fare ancora qualche passo fuori dalla prigione protettiva che gli avevano costruito i suoi cari. E così ha detto ad alta voce quella che aveva sentito tante volte dire nei suoi ambienti: “Gli omosessuali sono dei malati, ma possono essere curati”. L’ha detto così, tanto per dire. Poteva dire “Viva l’Inter” o “Non ci sono più le mezze stagioni”.
S’è scatenato l’inferno. Ma non perché qualcuno ha dato peso alle sue parole, che non significano nulla, bensì perché in questo modo ha rivelato la sua esistenza, e Formigoni non sa come giustificare di avere affidato a lui un assessorato. Eli, il bon Romano, è contento, ha visto anche la sua foto su un giornale. Suo fratello Ignazio è molto seccato. Tutti gli chiedono in quale istituto lo aveva tenuto fino ad ora.
Oliviero Diliberto, l’infantile. In crisi di astinenza da telecamere e giornalisti, appena ha visto una ragazzona che indossava una maglietta con su scritto “Fornero al cimitero” ha capito che sarebbe stata la più fotografata. Di corsa gli si è appiccicato accanto per scroccare qualche click, senza capire quanto oscena, macabra e offensiva fosse l’“esca” per attirare i fotografi.
Santorum, il concorrente alle primarie USA che sta contendendo a Romney il diritto di sfidare Obama alle elezioni presidenziali, harimproverato aspramente davanti a tutti un suo fan che gli diceva “uccidi Obama” e gli ha urlato di non volere il suo voto. Era in campagna elettorale e circondato da elettori repubblicani.
Diliberto non ha chiesto nemmeno scusa, ha dichiarato di non avere nulla di cui vergognarsi e si è giustificato dicendo di non avere letto cosa c’era scritto sulla maglietta della ragazza.
Leoluca Orlando, l’irresponsabile. Solo poche parole per questo complicato personaggio che prima organizza le Primarie a Palermo e poi dice che ci sono stati brogli. Invece di schiaffeggiarsi da se medesimo per non averle saputo organizzare se la prende con il vincitore. Tutte scuse per potersi candidare lui stesso, così come ha poi fatto. Libidine da protagonismo, bulimia di prime pagine, fotografi, TV. Personaggio patetico, convinto che il mondo giri attorno alla sua persona. E coi capelli sudici.
La settimana scorsa è stato il periodo scelto per la rappresentazione di quattro scene della tragicommedia italiana.
Nessuna di esse entrerà nella storia perché i protagonisti sono piccoli personaggi ai margini della politica e perché le loro bravate non lasceranno traccia. Per alcuni si tratta di piccoli e patetici tentativi di mettersi in mostra, per altri infantilismo allo stato puro. Per tutti, storie senza importanza e senza conseguenza pratiche se non ai danni di loro stessi. Una sola consolazione: si tratta di personaggi superflui.
Edo Ronchi, l’idiota. L’ex ministro del PDL, assieme ad un gruppo di altri deputati dello stesso partito, è stato colto in una sala di Montecitorio, cioè dentro il parlamento italiano a cantare a squarciagola come una comitiva di beoni: “il 25 aprile è nata una puttana le hanno dato il nome Repubblica Italiana”. Sono parlamentari della Repubblica Italiana e si trovavano dentro il Parlamento. E prendono tanti soldi, ogni mese, da quella che loro chiamano puttana.
Romano La Russa, l’evaso. È Assessore della Regione Lombardia, e fratello dell’ex ministro Ignazio, ma fino a pochi giorni fa nessuno lo conosceva. I suoi familiari, che ne conoscono il coefficiente d’intelligenza, gli raccomandano tutte le mattine di non farsi notare. Per lui la via della notorietà si è spalancata improvvisamente nei giorni scorsi, quando ha ricevuto un avviso di garanzia per un reato piccolo piccolo ma che lo equiparava, finalmente, ai politici di rango. Inebriato dalla notorietà ha approfittato per fare ancora qualche passo fuori dalla prigione protettiva che gli avevano costruito i suoi cari. E così ha detto ad alta voce quella che aveva sentito tante volte dire nei suoi ambienti: “Gli omosessuali sono dei malati, ma possono essere curati”. L’ha detto così, tanto per dire. Poteva dire “Viva l’Inter” o “Non ci sono più le mezze stagioni”.
S’è scatenato l’inferno. Ma non perché qualcuno ha dato peso alle sue parole, che non significano nulla, bensì perché in questo modo ha rivelato la sua esistenza, e Formigoni non sa come giustificare di avere affidato a lui un assessorato. Eli, il bon Romano, è contento, ha visto anche la sua foto su un giornale. Suo fratello Ignazio è molto seccato. Tutti gli chiedono in quale istituto lo aveva tenuto fino ad ora.
Oliviero Diliberto, l’infantile. In crisi di astinenza da telecamere e giornalisti, appena ha visto una ragazzona che indossava una maglietta con su scritto “Fornero al cimitero” ha capito che sarebbe stata la più fotografata. Di corsa gli si è appiccicato accanto per scroccare qualche click, senza capire quanto oscena, macabra e offensiva fosse l’“esca” per attirare i fotografi.
Santorum, il concorrente alle primarie USA che sta contendendo a Romney il diritto di sfidare Obama alle elezioni presidenziali, harimproverato aspramente davanti a tutti un suo fan che gli diceva “uccidi Obama” e gli ha urlato di non volere il suo voto. Era in campagna elettorale e circondato da elettori repubblicani.
Diliberto non ha chiesto nemmeno scusa, ha dichiarato di non avere nulla di cui vergognarsi e si è giustificato dicendo di non avere letto cosa c’era scritto sulla maglietta della ragazza.
Leoluca Orlando, l’irresponsabile. Solo poche parole per questo complicato personaggio che prima organizza le Primarie a Palermo e poi dice che ci sono stati brogli. Invece di schiaffeggiarsi da se medesimo per non averle saputo organizzare se la prende con il vincitore. Tutte scuse per potersi candidare lui stesso, così come ha poi fatto. Libidine da protagonismo, bulimia di prime pagine, fotografi, TV. Personaggio patetico, convinto che il mondo giri attorno alla sua persona. E coi capelli sudici.
giovedì 22 marzo 2012
La risorsa uomo
http://www.lanotizia.tv/index_tg_detail.asp?id=1636
Se permettete vorrei iniziare con una notizia che mi sta particolarmente a cuore. Ieri si è laureata in lettere moderne la nostra concittadina Luciella Failla, figlia dell’avvocato Aldo.
A parte il piacere personale, essendo Luciella figlia di un mio grandissimo amico, segnalo il fatto perché la neo laureata ha discusso una tesi sul nostro grande concittadino di sangue e onorario, Turi Vasile, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, drammaturgo e scrittore. Una scelta molto apprezzata anche dalla relatrice, professoressa Sarah Zappulla Muscarà e dal papà Aldo, carissimo amico dello scrittore, ma sicuramente anche di tutti quei lentinesi che vedono in questa scelta un’occasione per ricordare che Lentini è anche patria di artisti e intellettuali raffinatissimi e di fama internazionale.
L’argomento su cui vorrei dire qualcosa oggi ha a che fare proprio con le risorse intellettuali e le grandi istituzioni formative, scuola e università.
Più precisamente vorrei parlare delle enormi risorse sprecate, sottovalutate, non considerate, misconosciute, non valorizzate e della necessità di inventare qualcosa di nuovo, una scuola parallela da affiancare a scuole e università.
Qualcosa che non sia una scuola ma una galassia di piccole scuole locali e autonome tra di loro e dalla Scuola che conosciamo: che serva all’apprendimento di materie diverse da quelle che insegna la scuola, ma oggi quanto mai utili; che sia aperta a tutte le fasce d’età, ai disoccupati e ai lavoratori, ai pensionati e ai giovani; che tenga corsi veloci, mirati, che vadano dritto al sodo. Corsi che abbiano come obbiettivo quello di preparare ai nuovi lavori, alle possibilità che offre il mondo e non solo l’Italia ed anche di addestrare all’invenzione di nuovi lavori, nuovi servizi, nuove produzioni.
Per ribaltare l’attuale rapporto dell’uomo con la società, col lavoro, con la produzione.
L’uomo troppo spesso viene considerato poco più di uno strumento di lavoro, se serve all’azienda, pubblica o privata che sia, viene assunto, se non serve no. E non ha molti spazi per creare situazioni nuove, al massimo può arrangiarsi.
Quando quelli che non servono, cioè i disoccupati, diventano troppi, ecco che li si considera problema sociale.
Ribaltare questa impostazione vuol dire tirare fuori dall’uomo vocazioni nascoste, responsabilizzarlo, addestrarlo per diventare cacciatore di lavoro e non più vittima in attesa di essere cacciato, inventarselo pur non essendo un imprenditore. Vuol dire aiutarlo a mettersi in contatto con realtà nuove, insegnargli le lingue di queste nuove realtà (oggi sono Cina, Giappone, Brasile, India, Russia, domani chissà).
Vuol dire insegnargli ad usare ogni virtù nascosta del computer e svelargli tutte le potenzialità di internet, vuol dire accrescere la sua intelligenza emotiva.
Vuol dire abituarlo all’idea che il mondo è grande, vario, di tutti, che non è sciagura né vergogna andare altrove come non è una sciagura se altri vengono da noi per fare lavori che per loro sono più avanzati rispetto a quelli che offre il loro paese.
Ma vuol dire soprattutto mettere in circolo milioni di cervelli di disoccupati, di sottooccupati, di anziani, di persone che svolgono senza entusiasmo lavori senza prospettive di crescita e senza fascino.
Qualcosa del genere in tanti già la fanno da autodidatta, ma sono pochi quelli che da soli riescono a darsi un programma, obbiettivi chiari, strumenti adeguati e tempi giusti.
Il nuovo strumento formativo che ho in mente io servirebbe a dare ordine e velocità ai tentativi di questi autodidatta ma anche a invogliare tutti gli altri.
Se articolato ed organizzato bene questo strumento porterebbe ad una rivoluzione nel pensare, nel produrre, nei rapporti dell’uomo con il lavoro, nei rapporti tra gli uomini, nei rapporti tra il cittadino e la sua città.
E, soprattutto, darebbe il via alla rivoluzione più grande: trasformare l’uomo da strumento a risorsa.
Se permettete vorrei iniziare con una notizia che mi sta particolarmente a cuore. Ieri si è laureata in lettere moderne la nostra concittadina Luciella Failla, figlia dell’avvocato Aldo.
A parte il piacere personale, essendo Luciella figlia di un mio grandissimo amico, segnalo il fatto perché la neo laureata ha discusso una tesi sul nostro grande concittadino di sangue e onorario, Turi Vasile, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, drammaturgo e scrittore. Una scelta molto apprezzata anche dalla relatrice, professoressa Sarah Zappulla Muscarà e dal papà Aldo, carissimo amico dello scrittore, ma sicuramente anche di tutti quei lentinesi che vedono in questa scelta un’occasione per ricordare che Lentini è anche patria di artisti e intellettuali raffinatissimi e di fama internazionale.
L’argomento su cui vorrei dire qualcosa oggi ha a che fare proprio con le risorse intellettuali e le grandi istituzioni formative, scuola e università.
Più precisamente vorrei parlare delle enormi risorse sprecate, sottovalutate, non considerate, misconosciute, non valorizzate e della necessità di inventare qualcosa di nuovo, una scuola parallela da affiancare a scuole e università.
Qualcosa che non sia una scuola ma una galassia di piccole scuole locali e autonome tra di loro e dalla Scuola che conosciamo: che serva all’apprendimento di materie diverse da quelle che insegna la scuola, ma oggi quanto mai utili; che sia aperta a tutte le fasce d’età, ai disoccupati e ai lavoratori, ai pensionati e ai giovani; che tenga corsi veloci, mirati, che vadano dritto al sodo. Corsi che abbiano come obbiettivo quello di preparare ai nuovi lavori, alle possibilità che offre il mondo e non solo l’Italia ed anche di addestrare all’invenzione di nuovi lavori, nuovi servizi, nuove produzioni.
Per ribaltare l’attuale rapporto dell’uomo con la società, col lavoro, con la produzione.
L’uomo troppo spesso viene considerato poco più di uno strumento di lavoro, se serve all’azienda, pubblica o privata che sia, viene assunto, se non serve no. E non ha molti spazi per creare situazioni nuove, al massimo può arrangiarsi.
Quando quelli che non servono, cioè i disoccupati, diventano troppi, ecco che li si considera problema sociale.
Ribaltare questa impostazione vuol dire tirare fuori dall’uomo vocazioni nascoste, responsabilizzarlo, addestrarlo per diventare cacciatore di lavoro e non più vittima in attesa di essere cacciato, inventarselo pur non essendo un imprenditore. Vuol dire aiutarlo a mettersi in contatto con realtà nuove, insegnargli le lingue di queste nuove realtà (oggi sono Cina, Giappone, Brasile, India, Russia, domani chissà).
Vuol dire insegnargli ad usare ogni virtù nascosta del computer e svelargli tutte le potenzialità di internet, vuol dire accrescere la sua intelligenza emotiva.
Vuol dire abituarlo all’idea che il mondo è grande, vario, di tutti, che non è sciagura né vergogna andare altrove come non è una sciagura se altri vengono da noi per fare lavori che per loro sono più avanzati rispetto a quelli che offre il loro paese.
Ma vuol dire soprattutto mettere in circolo milioni di cervelli di disoccupati, di sottooccupati, di anziani, di persone che svolgono senza entusiasmo lavori senza prospettive di crescita e senza fascino.
Qualcosa del genere in tanti già la fanno da autodidatta, ma sono pochi quelli che da soli riescono a darsi un programma, obbiettivi chiari, strumenti adeguati e tempi giusti.
Il nuovo strumento formativo che ho in mente io servirebbe a dare ordine e velocità ai tentativi di questi autodidatta ma anche a invogliare tutti gli altri.
Se articolato ed organizzato bene questo strumento porterebbe ad una rivoluzione nel pensare, nel produrre, nei rapporti dell’uomo con il lavoro, nei rapporti tra gli uomini, nei rapporti tra il cittadino e la sua città.
E, soprattutto, darebbe il via alla rivoluzione più grande: trasformare l’uomo da strumento a risorsa.
L'esempio di Clooney e un sit-in per la Siria
rivistadellunedi 21/3/2012
La notizia dell’arresto di George Clooney mentre partecipava ad un sit-in per ricordare il dramma del Darfur ha fatto il giro del mondo.
In poche ora milioni e milioni di persone sono venuti a conoscenza di questa Regione di confine tra il Sudan e il Sud-Sudan, della morsa della fame e della sete in cui è stretta dal Sudan. E la conoscenza dell’esistenza di un dramma è il primo passo verso la sensibilizzazione, a cui segue la mobilitazione.
Il bravo, fascinoso e popolare attore è stato arrestato a Washintono, sotto l’ambasciata del Sudan assieme a molti altri manifestanti. Tra questi cìera suo padre Nick, giornalista da sempre impegnato nelle lotte per i diritti dei reietti del mondo.
Pochi giorni prima del suo arresto (durato poche ore) Clooney aveva incontrato il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama ela Segretariadi Stato Hillary Clinton per lo stesso motivo, il che la dice lunga sulla credibilità di Clooney in questo suo impegno.
Speriamo che qualcuno dei volti noti italiani voglia seguire la sua strada, invece di limitarsi a fare comizi e prediche senza finalità precise o con tante finalità da sembrarne privi.
Io, da parte mia, pur non essendo un volto noto né un giornalista letto e ascoltato, provo un po’ di vergogna.
È da troppo tempo che sento parlare della Siria, delle decine di migliaia di cittadini massacrati dal loro stesso esercito per ordine dl loro stesso presidente e non ho mai scritto un rigo.
L’esempio di George Clooney è prezioso ed io voglio seguirlo senza esitazioni.
Credo sia giusto cogliere al volo le lezioni che vengono da altri, vicini o lontani, importanti o umili, popolari o poco noti.
Nel mio piccolo cercherò di tenere accesa una lucina sulla Siria più che altro per adempiere ad un dovere, a prescindere dei risultati che possono essere raggiunti. Ma se saremo in tanti, anche se tutti piccoli come me, a parlarne, a ricordarlo ai nostri amici, a tenerci informati e ad informare, sarà come se facessimo un sit-in virtuale a favore del popolo siriano.
Nessuno di noi sarà arrestato per questo e, comunque, nessuno di noi è tanto famoso da fare parlare l’intero mondo.
Ma prima o poi qualcuno si accorgerà di noi. Prima o poi qualcuno più importate di noi si vergognerà un poco e si siederà accanto a noi. Prima o poi l’opinione pubblica, la coscienza pubblica, la solidarietà pubblica cominceranno a pesare e forse l’Italia, l’Europa, il mondo Occidentale proveranno a disarmare il criminale Assad, massacratore del suo stesso popolo, e salvare migliaia di vite umane e la speranza di un mondo migliore.
La notizia dell’arresto di George Clooney mentre partecipava ad un sit-in per ricordare il dramma del Darfur ha fatto il giro del mondo.
In poche ora milioni e milioni di persone sono venuti a conoscenza di questa Regione di confine tra il Sudan e il Sud-Sudan, della morsa della fame e della sete in cui è stretta dal Sudan. E la conoscenza dell’esistenza di un dramma è il primo passo verso la sensibilizzazione, a cui segue la mobilitazione.
Il bravo, fascinoso e popolare attore è stato arrestato a Washintono, sotto l’ambasciata del Sudan assieme a molti altri manifestanti. Tra questi cìera suo padre Nick, giornalista da sempre impegnato nelle lotte per i diritti dei reietti del mondo.
Pochi giorni prima del suo arresto (durato poche ore) Clooney aveva incontrato il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama ela Segretariadi Stato Hillary Clinton per lo stesso motivo, il che la dice lunga sulla credibilità di Clooney in questo suo impegno.
Speriamo che qualcuno dei volti noti italiani voglia seguire la sua strada, invece di limitarsi a fare comizi e prediche senza finalità precise o con tante finalità da sembrarne privi.
Io, da parte mia, pur non essendo un volto noto né un giornalista letto e ascoltato, provo un po’ di vergogna.
È da troppo tempo che sento parlare della Siria, delle decine di migliaia di cittadini massacrati dal loro stesso esercito per ordine dl loro stesso presidente e non ho mai scritto un rigo.
L’esempio di George Clooney è prezioso ed io voglio seguirlo senza esitazioni.
Credo sia giusto cogliere al volo le lezioni che vengono da altri, vicini o lontani, importanti o umili, popolari o poco noti.
Nel mio piccolo cercherò di tenere accesa una lucina sulla Siria più che altro per adempiere ad un dovere, a prescindere dei risultati che possono essere raggiunti. Ma se saremo in tanti, anche se tutti piccoli come me, a parlarne, a ricordarlo ai nostri amici, a tenerci informati e ad informare, sarà come se facessimo un sit-in virtuale a favore del popolo siriano.
Nessuno di noi sarà arrestato per questo e, comunque, nessuno di noi è tanto famoso da fare parlare l’intero mondo.
Ma prima o poi qualcuno si accorgerà di noi. Prima o poi qualcuno più importate di noi si vergognerà un poco e si siederà accanto a noi. Prima o poi l’opinione pubblica, la coscienza pubblica, la solidarietà pubblica cominceranno a pesare e forse l’Italia, l’Europa, il mondo Occidentale proveranno a disarmare il criminale Assad, massacratore del suo stesso popolo, e salvare migliaia di vite umane e la speranza di un mondo migliore.
venerdì 16 marzo 2012
Eroi di tutti
http://www.lanotizia.tv/index_tg_detail.asp?id=1628
Chiedo scusa a tutti se nel giro di pochi giorni tratto per la seconda volta lo stesso argomento.
Lo farei ogni giorno pur di ottenere qualche risultato.
L’argomento prende le mosse dal ritrovamento del corpo i Placido Rizzotto, avvenuto nei giorni scorsi, 64 anni dopo il suo assassinio.
I mafiosi che lo uccisero vollero togliere a Rizzotto non solo la vita ma anche la possibilità di un luogo dove egli potesse riposare, i suoi cari pregare, qualcuno meditare. Allora non avevano ancora scoperto l’acido per eliminare ogni traccia dell’ucciso e usavano un metodo arcaico ed economico. Gettavano il cadaveri nei dirupi inaccessibili delle montagne vicine. Quando le forze dell’ordine si misero seriamente a cercare il corpo di Placido trovarono diverse di queste fosse comuni. Per individuare tra i tanti il corpo del sindacalista ci sono voluti decenni.
La storia è questa. Nel 1944, in un’Italia stremata dalla guerra e da un ventennio di privazioni, durante il breve periodo di governo di unità nazionale fu emanato un decreto che prevedeva la messa a cultura delle terre incolte e mal coltivate, assegnandole (in affitto oneroso e a tempo determinato) ai braccianti riuniti in cooperative. Nella Sicilia occidentale erano molti i terreni di grande estensione abbandonati a se stessi, ma l’obbligo di coltivarli per creare ricchezza per gli stessi proprietari e per l’intera collettività fu visto come un oltraggio e come sottrazione di sovranità.
Le camere del lavoro e le sedi delle leghe contadine furono i centri promotori delle cooperative che si candidavano ad ottenere l’affitto delle terre.
I latifondisti, per difendere l’antico privilegio della proprietà assoluta e senza alcun condizionamento. non potendosi rivolgere allo Stato, si rivolsero al loro storico braccio armato: la mafia.
La mafia di allora nei piccoli centri del feudo e del latifondo (Corleone, Baucina, Sciara, Montelepre, ecc.) era una casta che traeva la sua forza dalla capacità di intimidazione. Spesso ricorreva all’omicidio per affermare la sua presenza, per accrescere il suo prestigio e la propria forza di contrattazione con i padroni. Chiunque progettava di intraprendere un’attività sapeva che la “famiglia” del luogo sarebbe intervenuta o per chiedere il pizzo o per impedirne la nascita.
I braccianti e i contadini seppero subito che quel decreto non era ben visto dalla mafia. Molti esitarono. Toccò così ai loro dirigenti, i segretari delle camere del lavoro, i capi lega, a volta addirittura ai sindaci, di mettersi avanti in prima persona.
I primi coraggiosi erano consapevoli dei rischi che correvano, quelli che seguirono ne avevano la certezza, avendo visto cadere sul campo chi li aveva preceduto.
Andarono incontro alla morte, loro disarmati e i nemici armati, senza retrocedere.
Li guidava un’idea di giustizia, avevano una bandiera, erano consapevoli dei rischi e non cedevano neanche quando vedevano cadere un loro compagno.
Ecco perché furono degli eroi.
Ed erano portatori di valori antichi e moderni: la libertà, la giustizia, il diritto al lavoro, la legalità
Non furono, quindi eroi del sindacato, dei contadini, della sinistra o dell’antimafia, di Corleone o di Petralia Sottana o del palermitano o della Sicilia intera, sono eroi di tutti.
E vanno onorati e ricordati come esempio da seguire in qualsiasi comune d’Italia. Per quello che hanno fatto e per quello che ancora possono insegnarci.
Camminano accanto a Falcone e Borsellino, ai fratelli Cervi, a Salvo d’Acquisto.
Diamoci da fare perché anche a Lentini, intestando loro una via o una piazza, si fissi il loro ricordo.
Chiedo scusa a tutti se nel giro di pochi giorni tratto per la seconda volta lo stesso argomento.
Lo farei ogni giorno pur di ottenere qualche risultato.
L’argomento prende le mosse dal ritrovamento del corpo i Placido Rizzotto, avvenuto nei giorni scorsi, 64 anni dopo il suo assassinio.
I mafiosi che lo uccisero vollero togliere a Rizzotto non solo la vita ma anche la possibilità di un luogo dove egli potesse riposare, i suoi cari pregare, qualcuno meditare. Allora non avevano ancora scoperto l’acido per eliminare ogni traccia dell’ucciso e usavano un metodo arcaico ed economico. Gettavano il cadaveri nei dirupi inaccessibili delle montagne vicine. Quando le forze dell’ordine si misero seriamente a cercare il corpo di Placido trovarono diverse di queste fosse comuni. Per individuare tra i tanti il corpo del sindacalista ci sono voluti decenni.
La storia è questa. Nel 1944, in un’Italia stremata dalla guerra e da un ventennio di privazioni, durante il breve periodo di governo di unità nazionale fu emanato un decreto che prevedeva la messa a cultura delle terre incolte e mal coltivate, assegnandole (in affitto oneroso e a tempo determinato) ai braccianti riuniti in cooperative. Nella Sicilia occidentale erano molti i terreni di grande estensione abbandonati a se stessi, ma l’obbligo di coltivarli per creare ricchezza per gli stessi proprietari e per l’intera collettività fu visto come un oltraggio e come sottrazione di sovranità.
Le camere del lavoro e le sedi delle leghe contadine furono i centri promotori delle cooperative che si candidavano ad ottenere l’affitto delle terre.
I latifondisti, per difendere l’antico privilegio della proprietà assoluta e senza alcun condizionamento. non potendosi rivolgere allo Stato, si rivolsero al loro storico braccio armato: la mafia.
La mafia di allora nei piccoli centri del feudo e del latifondo (Corleone, Baucina, Sciara, Montelepre, ecc.) era una casta che traeva la sua forza dalla capacità di intimidazione. Spesso ricorreva all’omicidio per affermare la sua presenza, per accrescere il suo prestigio e la propria forza di contrattazione con i padroni. Chiunque progettava di intraprendere un’attività sapeva che la “famiglia” del luogo sarebbe intervenuta o per chiedere il pizzo o per impedirne la nascita.
I braccianti e i contadini seppero subito che quel decreto non era ben visto dalla mafia. Molti esitarono. Toccò così ai loro dirigenti, i segretari delle camere del lavoro, i capi lega, a volta addirittura ai sindaci, di mettersi avanti in prima persona.
I primi coraggiosi erano consapevoli dei rischi che correvano, quelli che seguirono ne avevano la certezza, avendo visto cadere sul campo chi li aveva preceduto.
Andarono incontro alla morte, loro disarmati e i nemici armati, senza retrocedere.
Li guidava un’idea di giustizia, avevano una bandiera, erano consapevoli dei rischi e non cedevano neanche quando vedevano cadere un loro compagno.
Ecco perché furono degli eroi.
Ed erano portatori di valori antichi e moderni: la libertà, la giustizia, il diritto al lavoro, la legalità
Non furono, quindi eroi del sindacato, dei contadini, della sinistra o dell’antimafia, di Corleone o di Petralia Sottana o del palermitano o della Sicilia intera, sono eroi di tutti.
E vanno onorati e ricordati come esempio da seguire in qualsiasi comune d’Italia. Per quello che hanno fatto e per quello che ancora possono insegnarci.
Camminano accanto a Falcone e Borsellino, ai fratelli Cervi, a Salvo d’Acquisto.
Diamoci da fare perché anche a Lentini, intestando loro una via o una piazza, si fissi il loro ricordo.
martedì 13 marzo 2012
Noterelle
Mi ha colpito la presa di posizione di Alfano (e quindi del PDL e di Berlusconi): “non vado all’incontro (già programmato) con il Presidente del Consiglio Monti e con Bersani e Casini, perché questo governo non è autorizzato a parlare di RAI e di Giustizia, deve occuparsi solo di economia”.
Monti, come si sa, si trova a fare il premier perché il governo Berlusconi-Bossi si è dimesso per palese incapacità di proseguire. Oggi Alfano con questa dichiarazione precisa, a beneficio di chi non lo avesse capito, che loro erano in grado di governare ancora. Erano scarsi solo in economia, per questo hanno mollato tutto. E comunque, né Monti né altri sono autorizzati a trattare questioni che interessano il capo.
Due confessioni al prezzo di una.
Bossi, l’uomo di lotta e di osteria ha dichiarato due cose. La prima è che Berlusconi gli fa pena. Ed io sono convinto che si tratta d una dichiarazione strumentale: gli mancano gli inviti a cena con le relative grandi bevute. Questo giudizio verrà immediatamente modificato alla prima damigiana di Barolo che il capo gli farà pervenire.
Nella stessa sede ha ribadito davanti al suo seguito osannante anche che la Padania si farà costi quel che costi.
La domanda è: chi pagherà quei costi? Lui, i valligiani della bergamasca o tutta l’Italia, isole comprese?
Ineffabile sinistra.
Ha organizzato le primarie per scegliere, in piena democrazia e con il concorso dei propri elettori, il candidato sindaco di Palermo.
Hanno collaborato alla buona riuscita i dirigenti nazionali, provinciali e cittadini di PD, IDV e SEL.
In lista c’erano 4 nomi scelti o quanto meno accettati da tutti.
E invece no! Un certo Ferrandelli è risultato essere troppo amico del presidente della Regione Lombardo.
Per quale altra ragione, se non per questa, avrebbe potuto battere miss Buster Keaton (quella signora dal nome importante che, come il grande comico americano, non ride mai?)
E allora, dagli al Ferradelli: ricorsi, denunce, accuse, sospetti…
Ma cosa si pretende? A Leoluca Orlando non piace, punto e basta.
Monti, come si sa, si trova a fare il premier perché il governo Berlusconi-Bossi si è dimesso per palese incapacità di proseguire. Oggi Alfano con questa dichiarazione precisa, a beneficio di chi non lo avesse capito, che loro erano in grado di governare ancora. Erano scarsi solo in economia, per questo hanno mollato tutto. E comunque, né Monti né altri sono autorizzati a trattare questioni che interessano il capo.
Due confessioni al prezzo di una.
Bossi, l’uomo di lotta e di osteria ha dichiarato due cose. La prima è che Berlusconi gli fa pena. Ed io sono convinto che si tratta d una dichiarazione strumentale: gli mancano gli inviti a cena con le relative grandi bevute. Questo giudizio verrà immediatamente modificato alla prima damigiana di Barolo che il capo gli farà pervenire.
Nella stessa sede ha ribadito davanti al suo seguito osannante anche che la Padania si farà costi quel che costi.
La domanda è: chi pagherà quei costi? Lui, i valligiani della bergamasca o tutta l’Italia, isole comprese?
Ineffabile sinistra.
Ha organizzato le primarie per scegliere, in piena democrazia e con il concorso dei propri elettori, il candidato sindaco di Palermo.
Hanno collaborato alla buona riuscita i dirigenti nazionali, provinciali e cittadini di PD, IDV e SEL.
In lista c’erano 4 nomi scelti o quanto meno accettati da tutti.
E invece no! Un certo Ferrandelli è risultato essere troppo amico del presidente della Regione Lombardo.
Per quale altra ragione, se non per questa, avrebbe potuto battere miss Buster Keaton (quella signora dal nome importante che, come il grande comico americano, non ride mai?)
E allora, dagli al Ferradelli: ricorsi, denunce, accuse, sospetti…
Ma cosa si pretende? A Leoluca Orlando non piace, punto e basta.
lunedì 12 marzo 2012
I Martiri dimenticati
I Martiri dimenticati, di Guglielmo Tocco
Il 10 marzo del 1948 un eroico sindacalista di Corleone venne ucciso perché predicava l’occupazione delle terre incolte da parte dei contadini. Il capo della mafia corleonese al servizio dei latifondisti, il medico Michele Navarra ne decretò la morte (e fece uccidere, con una puntura, dentro l’ospedale di cui era primario, l’unico testimone del delitto, una ragazzino figlio di un pastore).
Il corpo del sindacalista, Placido Rizzotto fu scaraventato dentro un foiba di Rocca Busambra, una montagna vicina a Corleone. Non per paura che si potesse risalire agli assassini (la mafia vuole che la gente sappia, perché possa temerla di più) ma per negargli anche la possibilità che gli si erigesse una tomba dove si potesse portare un fiore Perché non nascesse mai un piccolo monumento per un eroe.
Per anni è il corpo di Placido è stato cercato ed ogni volta si scoprivano cadaveri di vittime della stessa cosca mafiosa. A nessuno questi poté mai essere dato un nome. Finalmente, dopo 64 anni meno due giorni, l’8 di marzo del 2012, grazie alle comparazioni del DNA, il corpo di Placido Rizzotto è stato individuato.
Rizzotto al momento del suo assassinio aveva 34 anni.
Adesso finalmente avrà un sepolcro.
Rizzotto, come Salvatore Carnevale, come Nicolò Azoti e tanti altri, non fu “vittima” dei mafiosi o dei latifondisti che difendevano il “diritto” di lasciare i loro feudi incolti. Lui e gli altri furono eroi che sfidarono consapevolmente latifondisti e mafiosi sapendo che quelli sparavano senza rimorsi né pietà e loro erano disarmati. E sapevano che ogni loro sacrificio sarebbe stato una piccola spinta per portare un po’ più avanti la Sicilia. E non lottavano per loro ma per i loro compaesani contadini senza terra, senza lavoro e senza pane.
Non furono eroi per caso. Operavano in paesi piccoli, dove la sera ci si incontrava tutti in piazza. Placido sentiva addosso gli sguardi minacciosi e beffardi dei vari Michele Navarra, Luciano Liggio, Totò Riina, Binnu Provenzano, li vedeva sputare per terra quando passava lui, vedeva i suoi amici squagliarsi quando incrociavano qualcuno di loro, sapeva chi erano e di chi che erano al servizio.
E sapeva che le loro minacce erano condanne.
Lo stesso accadeva agli altri eroi del lavoro e della giustizia sociale.
Tutti quanti, Nunzio Sansone di Villabate, Epifanio Li Puma di Petralia Sottana; Calogero Cangelosi di Camporeale, Gaetano Guarino di Favara, Nunzio Passafiume di Trabia, Pino Camilleri di Naro, Andrea Raia di Casteldaccia, Giuseppe Spagnolo di Cattolica Eraclea, Giovanni Castiglione di Alia, Girolamo Scaccia di Alia, Giuseppe Bilardo di Santa Ninfa, Giuseppe Maniaci di Santa Ninfa, Vito Pipitone di Marsala, Giuseppe Scalia di Cattolica Eraclea, Giuseppe Pitterello di Ventimiglia (cito solo quelli uccisi tra il 1945 e il 1950), tutti quanti sapevano che un giorno o l’altro sarebbero stati uccisi in piazza o in campagna, di notte o sotto il sole per quella straordinaria battaglia che stavano conducendo: la battaglia per le terre ai contadini. Sapevano che erano condannati, ma non si fermavano, perché era giusto e perché anche lo Stato aveva dato loro ragione, con il decreto Gullo del ’44. che stabiliva che le terre abbandonate, incolte e mal coltivate andassero ai contadini e ai braccianti riuniti in cooperative.
Ma spesso i contadini avevano paura e così si decise che a fare i presidenti delle cooperative fossero i segretari delle Camere del Lavoro. A volte capitava che il segretario della Camera del Lavoro non fosse bracciante o contadino. E quando assumeva la carica di presidente della cooperativa sapeva bene che non avrebbe ricavato nessun vantaggio personale, mentre il bersaglio del fuoco mafioso sarebbe stato personalmente lui.
Nicolò Azoti, il primo morto per mano mafiosa in quella “guerra per la terra”, era un falegname. Ed anche musicante nella banda del paese, Baucina. Quando gli chiesero di fare il Segretario della Camera del Lavoro avrebbe potuto rifiutare senza perdere la faccia: lui era artigiano, cosa c’entrava con i braccianti? Invece accettò e divenne presidente della cooperativa dei braccianti. qualcuno doveva farlo e lui aveva la coscienza politica ed il coraggio per farlo. Gli mandarono a dire che era meglio lasciar perdere, ma lui sapeva che l’emancipazione della Sicilia e dei suoi compaesani passava anche per queste vie difficili e pericolose.
Proseguì senza esitazioni. E senza esitazioni i mafiosi di Baucina, al servizio del barone del luogo lo uccisero.
Era l’antivigilia di Natale.
Nel 1955 a Sciara (PA) fu ucciso Salvatore Carnevale (32 anni).
Conosciuto da molti e indimenticabile è il Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnivali, di Ignazio Buttitta, portato su tutte le piazze da grandi cantastorie come Cicciu Busacca e Nonò Salomone.
(Ancilu era e nun avia ali
nun era santu e miraculi facìa,
'n cielu acchianava senza cordi e scali
e senza appidamenti nni scinnia;
era l'amuri lu so' capitali
e 'sta ricchizza a tutti la spartìa:
Turiddu Carnivali nnuminatu
ca comu Cristu nni muriu ammazzatu.
…………………………………………………….
………………………………………………......)
Questi versi valgono per tutti quanti martiri di quella epopea.
Noi siciliani del 2012 siamo lontani da quegli anni e da quella Sicilia. Ma abbiamo un grande debito verso quegli eroi, eroi di tutti e non solo del sindacato o della sinistra o delle loro città. E le loro storie personali hanno tanto da insegnarci.
Sarebbe giusto dedicare loro un monumento o una via in ogni comune siciliano per mantenerne viva la memoria.
Il 10 marzo del 1948 un eroico sindacalista di Corleone venne ucciso perché predicava l’occupazione delle terre incolte da parte dei contadini. Il capo della mafia corleonese al servizio dei latifondisti, il medico Michele Navarra ne decretò la morte (e fece uccidere, con una puntura, dentro l’ospedale di cui era primario, l’unico testimone del delitto, una ragazzino figlio di un pastore).
Il corpo del sindacalista, Placido Rizzotto fu scaraventato dentro un foiba di Rocca Busambra, una montagna vicina a Corleone. Non per paura che si potesse risalire agli assassini (la mafia vuole che la gente sappia, perché possa temerla di più) ma per negargli anche la possibilità che gli si erigesse una tomba dove si potesse portare un fiore Perché non nascesse mai un piccolo monumento per un eroe.
Per anni è il corpo di Placido è stato cercato ed ogni volta si scoprivano cadaveri di vittime della stessa cosca mafiosa. A nessuno questi poté mai essere dato un nome. Finalmente, dopo 64 anni meno due giorni, l’8 di marzo del 2012, grazie alle comparazioni del DNA, il corpo di Placido Rizzotto è stato individuato.
Rizzotto al momento del suo assassinio aveva 34 anni.
Adesso finalmente avrà un sepolcro.
Rizzotto, come Salvatore Carnevale, come Nicolò Azoti e tanti altri, non fu “vittima” dei mafiosi o dei latifondisti che difendevano il “diritto” di lasciare i loro feudi incolti. Lui e gli altri furono eroi che sfidarono consapevolmente latifondisti e mafiosi sapendo che quelli sparavano senza rimorsi né pietà e loro erano disarmati. E sapevano che ogni loro sacrificio sarebbe stato una piccola spinta per portare un po’ più avanti la Sicilia. E non lottavano per loro ma per i loro compaesani contadini senza terra, senza lavoro e senza pane.
Non furono eroi per caso. Operavano in paesi piccoli, dove la sera ci si incontrava tutti in piazza. Placido sentiva addosso gli sguardi minacciosi e beffardi dei vari Michele Navarra, Luciano Liggio, Totò Riina, Binnu Provenzano, li vedeva sputare per terra quando passava lui, vedeva i suoi amici squagliarsi quando incrociavano qualcuno di loro, sapeva chi erano e di chi che erano al servizio.
E sapeva che le loro minacce erano condanne.
Lo stesso accadeva agli altri eroi del lavoro e della giustizia sociale.
Tutti quanti, Nunzio Sansone di Villabate, Epifanio Li Puma di Petralia Sottana; Calogero Cangelosi di Camporeale, Gaetano Guarino di Favara, Nunzio Passafiume di Trabia, Pino Camilleri di Naro, Andrea Raia di Casteldaccia, Giuseppe Spagnolo di Cattolica Eraclea, Giovanni Castiglione di Alia, Girolamo Scaccia di Alia, Giuseppe Bilardo di Santa Ninfa, Giuseppe Maniaci di Santa Ninfa, Vito Pipitone di Marsala, Giuseppe Scalia di Cattolica Eraclea, Giuseppe Pitterello di Ventimiglia (cito solo quelli uccisi tra il 1945 e il 1950), tutti quanti sapevano che un giorno o l’altro sarebbero stati uccisi in piazza o in campagna, di notte o sotto il sole per quella straordinaria battaglia che stavano conducendo: la battaglia per le terre ai contadini. Sapevano che erano condannati, ma non si fermavano, perché era giusto e perché anche lo Stato aveva dato loro ragione, con il decreto Gullo del ’44. che stabiliva che le terre abbandonate, incolte e mal coltivate andassero ai contadini e ai braccianti riuniti in cooperative.
Ma spesso i contadini avevano paura e così si decise che a fare i presidenti delle cooperative fossero i segretari delle Camere del Lavoro. A volte capitava che il segretario della Camera del Lavoro non fosse bracciante o contadino. E quando assumeva la carica di presidente della cooperativa sapeva bene che non avrebbe ricavato nessun vantaggio personale, mentre il bersaglio del fuoco mafioso sarebbe stato personalmente lui.
Nicolò Azoti, il primo morto per mano mafiosa in quella “guerra per la terra”, era un falegname. Ed anche musicante nella banda del paese, Baucina. Quando gli chiesero di fare il Segretario della Camera del Lavoro avrebbe potuto rifiutare senza perdere la faccia: lui era artigiano, cosa c’entrava con i braccianti? Invece accettò e divenne presidente della cooperativa dei braccianti. qualcuno doveva farlo e lui aveva la coscienza politica ed il coraggio per farlo. Gli mandarono a dire che era meglio lasciar perdere, ma lui sapeva che l’emancipazione della Sicilia e dei suoi compaesani passava anche per queste vie difficili e pericolose.
Proseguì senza esitazioni. E senza esitazioni i mafiosi di Baucina, al servizio del barone del luogo lo uccisero.
Era l’antivigilia di Natale.
Nel 1955 a Sciara (PA) fu ucciso Salvatore Carnevale (32 anni).
Conosciuto da molti e indimenticabile è il Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnivali, di Ignazio Buttitta, portato su tutte le piazze da grandi cantastorie come Cicciu Busacca e Nonò Salomone.
(Ancilu era e nun avia ali
nun era santu e miraculi facìa,
'n cielu acchianava senza cordi e scali
e senza appidamenti nni scinnia;
era l'amuri lu so' capitali
e 'sta ricchizza a tutti la spartìa:
Turiddu Carnivali nnuminatu
ca comu Cristu nni muriu ammazzatu.
…………………………………………………….
………………………………………………......)
Questi versi valgono per tutti quanti martiri di quella epopea.
Noi siciliani del 2012 siamo lontani da quegli anni e da quella Sicilia. Ma abbiamo un grande debito verso quegli eroi, eroi di tutti e non solo del sindacato o della sinistra o delle loro città. E le loro storie personali hanno tanto da insegnarci.
Sarebbe giusto dedicare loro un monumento o una via in ogni comune siciliano per mantenerne viva la memoria.
giovedì 8 marzo 2012
Una donna emancipata ed emancipatrice
http://www.lanotizia.tv/index_tg_detail.asp?id=1621
Graziella Vistrè nacque nel 1912 a Gela, dove il padre si trovava per lavoro. Visse per 50 anni a Bagheria, città d’origine, dove svolse intensa attività politica e sindacale.
Nel PCI, il partito in cui militava, organizzò e diresse per anni un forte movimento di donne, nel sindacato si occupò prevalentemente del lavoro femminile, molto presente nelle aziende della conservazione del pesce in scatola e nei magazzini per la commercializzazione dei limoni.
Nel 1962, Emanuele Macaluso, segretario regionale della CGIL, rilevata la forte affermazione del lavoro femminile a Lentini, proprio per la sua specifica esperienza chiese a Graziella di trasferirsi nella nostra città.
Qui scoprì con sgomento che, mentre i braccianti erano molto sindacalizzati e politicizzati, le lavoratrici dei magazzini, spesso mogli o sorelle dei braccianti, non avevano nessun rapporto con la Camera del Lavoro. La paura dei pregiudizi e dei sospetti nei confronti di chi si “mischiava” con gli uomini consigliava loro di starsene lontane. La mancanza di ogni “protezione” politica, sindacale e sociale le rendeva vittime di ogni sopruso: dalla discriminazione salariale e nell’attività lavorativa alle molestie sessuali.
La protezione delle lavoratrici da questi soprusi (ma anche da quelle subite fuori dal posto di lavoro e perfino in famiglia) divenne la sua prima missione.
I risultati furono visibili e inimmaginabili in breve tempo.
Nel 1966 si rese protagonista di un gesto clamoroso: mentre nell’area della stazione di Lentini, zona di massima concentrazione dei magazzini per la commercializzazione degli agrumi, a conclusione di uno sciopero di diversi giorni aveva luogo un duro scontro tra braccianti e poliziotti della Celere, in pochi minuti riuscì a mettere in piedi un corteo affollatissimo di donne del quartiere soprafiera e con esso si interpose tra scioperanti e celerini. Quella iniziative fu determinante per la conclusione dello scontro e dello stesso sciopero.
Quel corteo mise in luce da un lato il grande prestigio e laa credibilità di cui godeva Graziella tra le donne di Lentini, dall’altro il coraggio e la determinazione delle stesse.
Graziella Vistrè fu anche, per diversi anni, consigliere comunale e assessore al Comune d Lentini
Il docu-film Graziella fumava le alfa illustra parte della vita pubblica e privata di Graziella a Lentini e Bagheria, offre uno sguardo panoramico sul sindacato negli anni ’60 e ’70, documenta gli scontri del ’66. Tutto attraverso testimonianze di persone presenti ai fatti, protagonisti, compagni e amici personali di Graziella.
Il film contiene un preziosissimo documento: la registrazione in diretta di alcune scene degli scontri ed è arricchito di due canzoni scritte per l’occasione da Bruno Gullotta (cantata da Luisa Zarbano) e da Giuseppe Sanfilippo (cantata dallo stesso autore).
Il film è ispirato da un monologo tratto dalla piece teatrale Ribellioni di Metis, scritta da e pubblicato nel libro Storie minime, di Guglielmo Tocco
La regia è di Guglielmo Tocco e Alfredo Martines, che ha curato anche il montaggio, la produzione di Alfredo Martines, Ciro Militti e Sergio Militti (già Infinity Media).
In occasione della Festa della donna, il docu film viene donato, sotto forma di DVD in 180 copie alla città di Lentini per ricordare una donna forte e coraggiosa che ha contribuito molto all’emancipazione delle donne lentinesi e il coraggio che le stesse donne di Lentini mostrarono in quel dicembre di 45 anni fa.
Le copie, che chiunque potrà ritirare a partire dall’8 marzo in Biblioteca o all’Archivio Storico, vengono consegnate all’assessore Nuccia Tronco, proprio perché presenza femminile nelle istituzioni e simbolo stesso dell’emancipazione femminile.
Graziella Vistrè nacque nel 1912 a Gela, dove il padre si trovava per lavoro. Visse per 50 anni a Bagheria, città d’origine, dove svolse intensa attività politica e sindacale.
Nel PCI, il partito in cui militava, organizzò e diresse per anni un forte movimento di donne, nel sindacato si occupò prevalentemente del lavoro femminile, molto presente nelle aziende della conservazione del pesce in scatola e nei magazzini per la commercializzazione dei limoni.
Nel 1962, Emanuele Macaluso, segretario regionale della CGIL, rilevata la forte affermazione del lavoro femminile a Lentini, proprio per la sua specifica esperienza chiese a Graziella di trasferirsi nella nostra città.
Qui scoprì con sgomento che, mentre i braccianti erano molto sindacalizzati e politicizzati, le lavoratrici dei magazzini, spesso mogli o sorelle dei braccianti, non avevano nessun rapporto con la Camera del Lavoro. La paura dei pregiudizi e dei sospetti nei confronti di chi si “mischiava” con gli uomini consigliava loro di starsene lontane. La mancanza di ogni “protezione” politica, sindacale e sociale le rendeva vittime di ogni sopruso: dalla discriminazione salariale e nell’attività lavorativa alle molestie sessuali.
La protezione delle lavoratrici da questi soprusi (ma anche da quelle subite fuori dal posto di lavoro e perfino in famiglia) divenne la sua prima missione.
I risultati furono visibili e inimmaginabili in breve tempo.
Nel 1966 si rese protagonista di un gesto clamoroso: mentre nell’area della stazione di Lentini, zona di massima concentrazione dei magazzini per la commercializzazione degli agrumi, a conclusione di uno sciopero di diversi giorni aveva luogo un duro scontro tra braccianti e poliziotti della Celere, in pochi minuti riuscì a mettere in piedi un corteo affollatissimo di donne del quartiere soprafiera e con esso si interpose tra scioperanti e celerini. Quella iniziative fu determinante per la conclusione dello scontro e dello stesso sciopero.
Quel corteo mise in luce da un lato il grande prestigio e laa credibilità di cui godeva Graziella tra le donne di Lentini, dall’altro il coraggio e la determinazione delle stesse.
Graziella Vistrè fu anche, per diversi anni, consigliere comunale e assessore al Comune d Lentini
Il docu-film Graziella fumava le alfa illustra parte della vita pubblica e privata di Graziella a Lentini e Bagheria, offre uno sguardo panoramico sul sindacato negli anni ’60 e ’70, documenta gli scontri del ’66. Tutto attraverso testimonianze di persone presenti ai fatti, protagonisti, compagni e amici personali di Graziella.
Il film contiene un preziosissimo documento: la registrazione in diretta di alcune scene degli scontri ed è arricchito di due canzoni scritte per l’occasione da Bruno Gullotta (cantata da Luisa Zarbano) e da Giuseppe Sanfilippo (cantata dallo stesso autore).
Il film è ispirato da un monologo tratto dalla piece teatrale Ribellioni di Metis, scritta da e pubblicato nel libro Storie minime, di Guglielmo Tocco
La regia è di Guglielmo Tocco e Alfredo Martines, che ha curato anche il montaggio, la produzione di Alfredo Martines, Ciro Militti e Sergio Militti (già Infinity Media).
In occasione della Festa della donna, il docu film viene donato, sotto forma di DVD in 180 copie alla città di Lentini per ricordare una donna forte e coraggiosa che ha contribuito molto all’emancipazione delle donne lentinesi e il coraggio che le stesse donne di Lentini mostrarono in quel dicembre di 45 anni fa.
Le copie, che chiunque potrà ritirare a partire dall’8 marzo in Biblioteca o all’Archivio Storico, vengono consegnate all’assessore Nuccia Tronco, proprio perché presenza femminile nelle istituzioni e simbolo stesso dell’emancipazione femminile.
lunedì 5 marzo 2012
I dibattiti ai tempi di facebook
Sono un convinto assertore della bontà di face-book.
Tra le tante opportunità di arricchire la vita quotidiana che esso offre (rintracciare vecchie amicizie, farne nuove, scambiarsi informazioni sui temi più vari), ce n’è una che a me interessa di più e che frequento costantemente: la possibilità di partecipare a discussioni le più disparate, aprirne di nuove, “creare” circoli virtuali
ed effimeri, misurarsi con temi serissimi o banali. C’è di buono che nessuno ti chiede se hai titoli per dire la tua e nessuno, quindi, può mostrare pregiudizi o ti può intimidire. Il risultato è che se hai qualcosa da dire la dici senza filtri, condizionamenti psicologici, per cui si scoprono persone molto preparate che nelle discussioni reali non riescono mai ad esprimersi al meglio perché circondate da scetticismo.
Insomma, sono convinto che ci aiuti a saperne di più, ad esprimerci meglio. a confrontare più facilmente le nostre idee con quelle degli altri. E a farci sopportare meglio la quasi scomparsa dei mitici dibattiti, delle assemblee, delle conferenze.
Ma qualche sera fa sono stato invitato ad una cosiddetta “conversazione pubblica” dall’associazione Demopolis.
Vi ho ritrovato tante cose che non si trovano su internet: volti, strette di mano, odori, voci.
Ed ho rivisto la passione, la timidezza, la veemenza, l’emotività. Ed anche lo spirito polemico, la teatralità, la gestualità, la ricerca della chiusura ad effetto, lo sforzo per esprimersi oltre che con le parole anche con i gesti, l’attenzione all’“l’effetto che fa”.
Non sto parlando di piccoli tic, di debolezze, di aspetti secondari. Sto parlando del linguaggio del corpo e della musicalità della voce. E se è vero che ognuno si distingue dagli altri, è anche vero che tutto l’armamentario di gesti, toni, sguardi ha una matrice comune , è quello di un popolo. Esiste un dialetto del corpo e degli sguardi, delle “nnacate” e delle allusioni. Viene espresso in ogni circostanza ma quando si parla in pubblico ci si sente in passerella e tutto viene enfatizzato, esposto al meglio, messo a confronto. Chi parla si esprime in italiano, ma questo “linguaggio di supplemento” affianca e talvolta sovrasta la lingua parlata e non abbandona mai il suo dialetto, il suo gergo.
L’occasione era ideale per suscitare passione ed emotività, perché l’argomento trattato era proprio quello giusto, “I diritti dei lavoratori dalle lotte bracciantili degli anni ‘60 ad oggi”.
Ringrazio Elio Magnano e l’avvocato Isabella Maltese, presidente di Demopolis, per avermi personalmente invitato e ancora di più per avere ricreato le condizioni perché questa magia si avverasse. Spero si riprenda con continuità questa pratica cara ai lentinesi. E spero che presto siano messi a disposizione della città i luoghi dei dibattiti e degli incontri: quelli della memoria, come l’Antico Lavatoio e quelli del futuro, come l’ex Aias, il Palazzo Beneventano, l’ex ospedale.
Tra le tante opportunità di arricchire la vita quotidiana che esso offre (rintracciare vecchie amicizie, farne nuove, scambiarsi informazioni sui temi più vari), ce n’è una che a me interessa di più e che frequento costantemente: la possibilità di partecipare a discussioni le più disparate, aprirne di nuove, “creare” circoli virtuali
ed effimeri, misurarsi con temi serissimi o banali. C’è di buono che nessuno ti chiede se hai titoli per dire la tua e nessuno, quindi, può mostrare pregiudizi o ti può intimidire. Il risultato è che se hai qualcosa da dire la dici senza filtri, condizionamenti psicologici, per cui si scoprono persone molto preparate che nelle discussioni reali non riescono mai ad esprimersi al meglio perché circondate da scetticismo.
Insomma, sono convinto che ci aiuti a saperne di più, ad esprimerci meglio. a confrontare più facilmente le nostre idee con quelle degli altri. E a farci sopportare meglio la quasi scomparsa dei mitici dibattiti, delle assemblee, delle conferenze.
Ma qualche sera fa sono stato invitato ad una cosiddetta “conversazione pubblica” dall’associazione Demopolis.
Vi ho ritrovato tante cose che non si trovano su internet: volti, strette di mano, odori, voci.
Ed ho rivisto la passione, la timidezza, la veemenza, l’emotività. Ed anche lo spirito polemico, la teatralità, la gestualità, la ricerca della chiusura ad effetto, lo sforzo per esprimersi oltre che con le parole anche con i gesti, l’attenzione all’“l’effetto che fa”.
Non sto parlando di piccoli tic, di debolezze, di aspetti secondari. Sto parlando del linguaggio del corpo e della musicalità della voce. E se è vero che ognuno si distingue dagli altri, è anche vero che tutto l’armamentario di gesti, toni, sguardi ha una matrice comune , è quello di un popolo. Esiste un dialetto del corpo e degli sguardi, delle “nnacate” e delle allusioni. Viene espresso in ogni circostanza ma quando si parla in pubblico ci si sente in passerella e tutto viene enfatizzato, esposto al meglio, messo a confronto. Chi parla si esprime in italiano, ma questo “linguaggio di supplemento” affianca e talvolta sovrasta la lingua parlata e non abbandona mai il suo dialetto, il suo gergo.
L’occasione era ideale per suscitare passione ed emotività, perché l’argomento trattato era proprio quello giusto, “I diritti dei lavoratori dalle lotte bracciantili degli anni ‘60 ad oggi”.
Ringrazio Elio Magnano e l’avvocato Isabella Maltese, presidente di Demopolis, per avermi personalmente invitato e ancora di più per avere ricreato le condizioni perché questa magia si avverasse. Spero si riprenda con continuità questa pratica cara ai lentinesi. E spero che presto siano messi a disposizione della città i luoghi dei dibattiti e degli incontri: quelli della memoria, come l’Antico Lavatoio e quelli del futuro, come l’ex Aias, il Palazzo Beneventano, l’ex ospedale.
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